Tutta mia la città. L’intervista.

Federico Zappini ai microfoni di Sanbaradio

 

Da dove arriva il nome del Festival?

Il nome del festival è evidentemente uno scherzo…il ricordare una canzone, un ritornello che rimane comunque in testa e utilizzarlo per veicolare un messaggio.

E quale è il messaggio profondo di “Tutta mia la città”?

Diciamo che da un lato “Tutta mia la città” richiamerebbe il fatto di possederla la città, di esserne gli unici proprietari quando invece andando avanti e continuando a ragionare sulla parola “mia” se ne riscopre invece un valore diverso, che è quello della partecipazione, della condivisione, di sentire la città propria, come un bene di tutti e di cui tutti siamo protagonisti.

Questo è un messaggio che colpisce, il non intendere “mia” come aggettivo possessivo. Voi per “mia”, effettivamente cosa intendete? Come dovrebbe essere, secondo voi, la città ideale?

Probabilmente usciamo da una fase storica in cui le città si conoscono soprattutto per messaggi sui temi della sicurezza. Una visione che le presenta come luoghi della paura, dell'insicurezza a cui non si sa come far fronte. Noi abbiamo riscontrato che ci sono due modi di risanare questa cosa: da una parte c'è il modo che è stato proposto in questi ultimi decenni che è stato quello di militarizzare le città, per renderle sicure attraverso l'utilizzo di una telecamera piuttosto che qualsiasi altro strumento di controllo. C'è però anche un altro modo che a noi sembra molto più intelligente e coinvolgente, che è quello di far diventare di nuovo le città luogo dell'incontro, della relazione, della partecipazione.

Sembra però, come hai detto tu stesso che la politica ancora spinga verso una militarizzazione…cosa ne pensi? Avete avuto problemi per l'organizzazione? Questo Festival potrebbe anche essere un bell'esempio da riportare anche in altri quartieri della città…

Credo che guardandosi attorno anche solo questa settimana e la settimana scorsa, Trento abbia già delle ottime pratiche. E con questo penso per esempio alla festa di San Martino, che da anni ripropone un modo interessante di stare insieme. Sabato, mentre noi saremo qui, ci sarà un esperimento “ai casoni” con un progetto molto simile, che ha gli stessi nostri obiettivi, ossia quelli di riuscire a ritradurre una forma di comunità che abbia a cuore il futuro della città. I problemi sono tantissimi, partendo da uno fondamentale: l'Uomo in sé è un essere che non è prodigo alla condivisione di natura: nasciamo egoisti e viviamo ogni cosa valutando come prima cosa il nostro interesse. Ovviamente provare a condividere è uno sforzo che ci poniamo…

Come ha reagito la via (negozi, cittadini…) quando avete proposto il Festival?

Diciamo che quello che dicevo prima nei termini della contraddizione che caratterizza il concetto si condivisione, ci sta dentro tutto il processo: da una parte si trovano grandi possibilità, grande voglia di partecipare, grandi energie. Dall'altra trovi, come se fosse un lato oscuro della medaglia, le stesse identiche resistenze, difficoltà di comprensione dei linguaggi che esulano talvolta dal vocabolario delle nostre vite. Si discuteva proprio in questi giorni di spazi pubblici e privati…Noi viviamo molto, sempre più spesso, un privato che è quello che troviamo dopo aver chiuso con due mandate la porta di casa ed è una cosa che teniamo esclusivamente per noi. Lo spazio pubblico, che tendenzialmente sono le strade, le viviamo come un prolungamento dello spazio privato…quindi vorremmo che la strada fosse silenziosa, vuota, non proponesse nessuna delle contraddizioni che la strada ha in sé . E questo è un bel mix, pieno, ancora una volta, di controversie che combinate insieme a qualche cosa porteranno. Con questo Festival vogliamo proprio provare a capire un po' di più dei meccanismi che stanno dietro e dentro tutto questo.