di Lucia Mora
Tra le espressioni impiegate per descrivere la situazione che stiamo vivendo, si usa spesso “siamo in guerra” (solo Macron lo ha detto sei volte). È davvero così?
Chi – come la sottoscritta – ama scrivere, sa che l’uso delle parole è importante. E sa anche che utilizzare una terminologia della guerra in una situazione di emergenza sanitaria è profondamente sbagliato.
Primo, perché il culto della guerra è già una malattia di per sé, ed è una malattia che da troppo tempo affligge la nostra società. Il fatto che la metafora bellica abbia per molte persone così tanto fascino ed efficacia ne è la dimostrazione.
Secondo, perché non siamo in guerra. Siamo in cura, che è ben diverso.
La guerra divide, lacera e distrugge. Sono davvero questi i verbi che rendono giustizia a ciò che tutti stiamo vivendo ormai da settimane?
I cittadini sono chiusi in casa non per i bombardamenti, non per il coprifuoco, ma per rispettare il lavoro di chi spende quotidianamente tutte le proprie energie per debellare il virus. E come lo si debella? Non dividendo, non lacerando, non distruggendo: curando.
La cura unisce, risana e ristabilisce l’equilibrio. È una forza che dà forza, e “forza” non significa neanche lontanamente violenza. La cura dà speranza, è solidarietà. È progresso. È, soprattutto, umanità.
Del resto, basterebbe non seguire i passi di chi – più che altro in politica – si serve della guerra (e delle certamente accattivanti immagini fondate su di essa) per interessi che vanno ben oltre l’emergenza attuale. Basti pensare a Donald Trump, per il quale questo non è un coronavirus, ma un virus cinese. Come se fosse il momento di alimentare la xenofobia e l’odio per un qualsiasi “nemico” esterno da combattere.
Purtroppo una simile attitudine attecchisce in larga misura, per via della banalità con cui viene proposta. È più facile chiedere alla popolazione un sacrificio, se le si fa credere di essere in guerra; magari bombardando l’informazione pubblica di bollettini su vittime e costi.
Al contrario, affrontare una malattia non è questione di guerra o di eroismo, ma di cura e di risorse sanitarie. Non occorre caricare le spalle di chi cura (e, naturalmente, di chi viene curato) di aspettative e di sensi di colpa, poiché controproducente.
Per quanto questa possa sembrare una mera questione linguistica, bisogna considerare quanto una buona comunicazione e una visione non distorta della realtà potranno essere utili anche per il post-emergenza.
Visti gli ingenti danni – sia sul piano umano, sia su quello economico – causati dal Covid-19, è evidente che la ripartenza potrà avvenire solo con una risposta unitaria fondata su obiettivi comuni e solidali; non certo con la prepotenza.
Il linguaggio della guerra è pericoloso, perché nel momento in cui riesce a insinuarsi nella mente, normalizza e rende accettabile uno scenario bellico.
Certo, se si considera il traffico di armi che, nonostante tutto, non si è mai fermato (sono 40.000 gli euro investiti al minuto dall’Italia in spese militari), allora sì: in effetti, siamo in guerra. Lo eravamo anche prima di questa emergenza. Ma questa è un’altra storia.