di Leonardo Tosi
Lo scorso 26 aprile è uscito Faber Nostrum, disco tributo di quella che i media hanno cominciato a chiamare “nuova scena musicale italiana” (nominativo non azzeccatissimo ma che permette finalmente di superare l’abusata e ormai fuori luogo definizione di “indie”) a Fabrizio De André.
Lo sento quel brivido che vi corre per la schiena, percepisco il vostro fastidio montare un po’ alla volta. Beh, calmatevi, la prima cosa da fare è spegnere le torce e rimettere al loro posto i forconi: si può reinterpretare Faber, è legittimo farlo, è già stato fatto (con risultati a volte più, a volte meno soddisfacenti), di celebrazioni e tributi è piena la storia della musica.
La cosa più sbagliata è prendere un maestro, un modello, e lasciarlo sotto una teca a soffocare senza ossigeno. Le canzoni di Fabrizio sono vivide e vive, i suoi messaggi sono sempre attuali, ben venga qualsiasi iniziativa che possa contribuire a diffonderli e farli arrivare ad orecchie lontane.
E questo lo diciamo e lo pensiamo noi, ma pure Dori Ghezzi viaggia su una lunghezza d’onda simile: “È giusto che la sua musica vada avanti anche attraverso altri. […] Questo disco fa in modo che attraverso le sue opere i ragazzi viaggino verso Fabrizio. Questi artisti hanno portato le sue canzoni nel loro mondo musicale. Evviva il coraggio, anche nel tentativo di essere fedeli. È stato un disco fatto per l'amore della musica”.
La premessa è doverosa, perché quando tocchi un mostro sacro come De André ti saltano tutti alla giugulare come mastini da caccia, e infatti le reazioni sono arrivate subito, qualche applauso e tante critiche. Ecco, l’integralismo magari no.
Ciò detto, passiamo ad occuparci della pietra d’angolo di ogni critica con la pretesa di essere quanto meno decente: premiamo play.
Le tracce sono quindici, ben assortite nel rappresentare un po’ tutta la carriera di Faber. Già dal primo ascolto emerge una divisione abbastanza netta tra sommersi e salvati, tra chi è riuscito a rendere omaggio in maniera non invasiva, o addirittura pregevole, e chi, invece, ha fatto un buco nell’acqua.
Partiamo da questi ultimi: Ex-Otago e Cimini x Lo Stato Sociale si contendono la palma di peggior cover presente nell’album, gli uni con una versione piatta e dall’arrangiamento eccessivamente pop di Amore che vieni, amore che vai, gli altri con una Canzone per l’estate che compie i medesimi passi falsi. Manca trasporto, manca tiro, vi consigliamo di passare oltre.
Appena sopra, ad annaspare per rimanere a galla, troviamo i Pinguini Tattici Nucleari, che hanno reso Fiume Sand Creek una patinata canzone degli ultimi Coldplay tagliata con impressioni di Cancelleria, con dei coretti e degli orpelli che sembrano un po’ fuori luogo visto l’argomento del brano; dispiace, perché da musicisti così dotati ci si aspettava qualcosa in più. Menzione per il solo di chitarra in crescendo, che restituisce al brano un po’ di pathos.
Continuando a salire per riveder le stelle, ci imbattiamo in un gruppone di artisti che hanno fatto il loro, proponendo versioni abbastanza fedeli agli originali, non confezionando nulla di memorabile, ma evitando di compiere pesanti passi falsi. Nella parte bassa i Canova con Il suonatore Jones, un po’ appesantita dall’arrangiamento e dal cantato, ma tutto sommato gradevole; La Municipal salva col trascorrere dei secondi una Canzone di Marinella inizialmente un po’ scarica; Gazzelle apre il disco con Sally, che diventa una ballata pop pienamente nel suo stile ma mantiene la sua aura di speciale disperazione; Artù propone con sincerità una buona versione del Cantico dei drogati; Motta canta Verranno a chiederti del nostro amore restando sempre sul filo di lana: la porta a casa o no? Spoiler: ce la fa, e dignitosamente. Colapesce fa, come già sottolineato da tanti, la cover della cover di Battiato, confrontandosi più con la versione di Canzone dell’amore perduto del cantautore siciliano piuttosto che con Faber. Gli Zen Circus guidano invece questa nutrita truppa con una bella cover di Hotel Supramonte, ulteriormente rallentata e resa con grande maestria. Bel lavoro.
Arriviamo, infine, alle belle sorprese. Vasco Brondi chiude il disco con Smisurata preghiera, che gli calza come un vestito su misura: effettivamente, visti i temi e gli arrangiamenti dell’ultimo lavoro delle Luci della centrale elettrica, non ci stupiamo troppo. Fadi propone una versione di Rimini in costante crescendo, tutta anema e core, che fa breccia in chi ascolta e permette di soprassedere su alcune imprecisioni di vario genere. I Ministri fanno un lavoro egregio con una resa di Inverno che prende sempre più corpo col passare di ogni nota; Willie Peyote rielabora (come suo solito, ascoltatevi la sua cover di Che notte di Fred Buscaglione) Il bombarolo, prendendosi qualche rischio (che fai, cambi i testi di De André, il dio della ricerca lessicale?) ma tirando fuori un testo efficace, moderno e, secondo il parere di chi scrive, rispettoso. Ma la cosa più bella di questo hub, come è stato definito dai portavoce di Sony Music, la fa The Leading Guy, cantando Se ti tagliassero a pezzetti aggrappato alla sua chitarra, con voce graffiante il giusto, approcciandosi con grande umiltà a questo lavoro e tirando fuori dal cilindro un gran bel coniglio.
Bilancio? Buone le intenzioni, risultato a tratti rivedibile, con qualche perla nemmeno troppo nascosta.
Ci prendiamo ancora un attimo per trovare il pelo nell'uovo: si è vero, Motta scambia la scusa con l’accusa, forse pensando di cantare anche lui, per un momento, Hotel Supramonte; e Fadi manda Teresa all’Irish bar invece che da Harry’s. Forse, dopo tutto, possiamo soprassedere.
PS: prima di tornare ad ascoltarvi la voce di Fabrizio De André, fate comunque una doverosa pausa.