Nella cavità del sole: l’eclissi dell’Io nel buco nero di Riccardo III

Un sole oscuro è sorto e tramontato sul palco del Teatro Stabile di Bolzano, che giovedì 13 aprile ha ospitato il Riccardo III di William Shakespeare, riadattato dal drammaturgo Armin Szabó-Székely e diretto dalla regista Kriszta Székely. Ma quella che illumina l’ascesa del sanguinario Gloucester nella conquista del potere è una cattiva stella, come lui stesso dice riguardo alla morte (comandata) dei figli della regina: un astro così appesantito da coaguli di delitti – messi bene in mostra nella mise en scène sottoforma di sacchi mortuari presenti per tutta la durata della rappresentazione – da collassare su sé stesso, divorandosi assieme alla scia di vittime che gli scorre dietro, come il lungo mantello di un re.

Eppure, Riccardo III continua a sedurci. Difatti Riccardo III, pur inserendosi nella tradizione tragica classica del teatro elisabettiano in cui Shakespeare – ironia della sorte – disegna l’ultimo sovrano della casa di York come sadico e sanguinario in modo da soddisfare le politiche della regina Elisabetta I, ci parla e ci convince – senza troppa fatica (del resto è proprio questo, il suo talento) – di averlo già incontrato. I raggi accecanti del potere – seduttivo e seduttore – cingono a turno il capo di ogni attore, che lo desiderano, lo sfiorano e, infine, lo possiedono. Tutte le scene sono sovrastate dalla presenza persistente di una luce circolare e cava: una simbolica corona-aureola che ricorda non solo il potere – che passa di mano in mano – ma anche il concetto del “diritto divino” e quello più antico della taumaturgia dei re. Una scena esemplare è quella in cui Riccardo, vestito di stracci come un francescano e brandente una croce, riappare come un “re santo” dopo la falsa reticenza a proporsi come sovrano: benedice il pubblico, lo seduce, lo minaccia. Questa continua ambiguità di Riccardo, interpretato da Paolo Pierobon, lo rende un mosaico dal motivo incomprensibile, se guardato da troppo vicino. Ecco, infatti, che tutti i suoi fedeli e amici vengono ingannati da Gloucester nel momento in cui la sua ragnatela si allarga verso la prossima vittima, che comprende i dettagli del motivo quando ormai ne è esso stesso parte, e ne può mortalmente osservare l’intreccio. Esempio magistrale è quello del personaggio di Hastings, interpretato da Matteo Alì, amico fedele che viene ingannato tramite un complotto.

Un intreccio intricato e quasi insondabile come la trama stessa del Riccardo III, dunque. Eppure, nello stratificato tessuto di crimini di cui il nuovo re si macchia si può trovare facilmente il filo conduttore di una storia più che contemporanea. Infatti, il passato e il presente parlano vis-à-vis nella sceneggiatura di Szabó-Székely. L’ambientazione viene trasposta nel presente, in uno chalet di montagna irraggiungibile, dove uomini e donne di un non ben definito partito politico – dopo l’acquisizione definitiva del potere (nel testo originale, la fine della Guerra delle Due Rose) – decidono di installare il loro quartier generale per affermare il loro dominio nello scorrere dei giorni (rappresentato in modo raffinato dalle luci di Pasquale Mari e Gianni Bertoli). E sin dall’inizio, la loro permanenza è sempre accompagnata dai suoni cupi di Claudio Tortorici, che sembrano quasi un lamento funebre. I personaggi – vestiti nei costumi moderni di Dóra Pattantyus – festeggiano tra alcol, droga e molestie nei confronti delle proprie mogli e compagne intorno a un tavolo dietro al quale ca(m)peggia, tra tante sedie anonime, una poltrona: il trono. Tra i personaggi femminili spicca sin dalla prima scena Lady Anna – interpretata da Lisa Lendaro – accanto al primo cadavere della tragedia, che coglie l’occhio dello spettatore. La vedova di Edoardo di Lancaster, interpretato nella discesa verso la follia da Francesco Bolo Rossini, sarà la prima a cadere vittima delle manipolazioni psicologiche di Riccardo, divenendo una moglie sempre più vittima (psicologica e fisica) dell’ego schiacciante del futuro re.

La seduzione di Riccardo non ha filtri e impatta contro la morale dello spettatore, giocando tra il testo originario e l’uso di lessico e sintassi moderni. Tutta la sceneggiatura è, infatti, un ricamo fatto di scelte linguistiche attente, in cui verbo shakesperiano e rimaneggiamento sono raffinatamente bilanciati. Lo spettatore viene così messo al riparo dallo straniamento poetico e tirato all’interno della narrazione, che parla come lui. Come la struttura superficiale del linguaggio – per scomodare Chomsky – si tende tra la tradizione e una sorta di “grado zero della scrittura” (Barthes, 1953) (il linguaggio utilizzato dai personaggi è spesso comune, informale), la struttura profonda e pragmatica scorre su un continuum tra dramma ed ironia (elemento tipico delle tragedie di Shakespeare). Riccardo gioca continuamente con i toni del discorso, rimpallando le parole tra sarcasmo e gravità stilistica per confondere tutti, pubblico e protagonisti. La sua esorcizzazione di qualsiasi atto linguistico prende in giro il rapporto di verità tra realtà e “detto”, persino quando i proferimenti sono maledizioni o profezie come quelle della regina spodestata Margherita, interpretata da Marta Pizzigallo. È infatti il “non-detto” e il “non-visto” ciò che rivelano lo stato dei fatti allo spettatore. La costruzione della scenografia di Botond Devich è infatti incentrata su questa doppia dicotomia. Riccardo è sempre mandante ma mai esecutore: non vediamo mai direttamente tutti i delitti di cui si macchia.

Ma in diretta, sì. Ogni assassinio antecedente all’incoronazione di Riccardo, come quello di Clarence interpretato da Stefano Guerreri, è mostrato attraverso dei video (diretti da Vince Varga), che non solo prendono il posto del “cambio-fondale” ma metaforizzano anche l’inconsapevolezza del popolo rispetto a ciò che c’è dietro all’ascesa del potere di un tiranno. E noi spettatori, pur sapendo fin dall’inizio lo scopo diabolico di Riccardo, diveniamo popolo e parte del suo piano solamente durante la sua incoronazione che avviene alla “luce del sole”: le luci in sala vengono accese e il pubblico viene interpellato per ottenerne il consenso, proprio come se fosse un comizio politico. Riccardo si sovraespone assieme ai suoi delitti, con sé stesso e tutti i mezzi che ha a disposizione. Quella dei mass media è, difatti, una presenza massiccia all’interno della rappresentazione, che inizia con le riprese in diretta del comunicato stampa del partito vincitore. Ancora, un talk show dal tono grottesco presenta al mondo il Riccardo santone. Fake news, stories e selfies sono sempre presenti in ogni scena, pronti a documentare momenti e notizie rigirati a seconda della necessità.

 L’utilizzo di elementi così moderni e pervasivi nella nostra vita quotidiana vuole essere una dura critica alla volgarità e alla falsità di socials e televisione, a cui non viene risparmiato nulla e nessuno per ottenere il potere. E tutti, anche coloro che non vogliono sporcarsi le mani, come lo Stanley interpretato da Nicola Pannelli, alla fine diventano parte del meccanismo, saltando da un leader all’altro. Infatti, alla fine sarà Elisabetta, intetpretata da Elisabetta Mazzullo, a prendere il posto di Riccardo e a concedere le dimissioni a Stanley. La nuova regina non si mostra esclusivamente come liberatrice, ma anche come nuova dominatrice pronta a contrastare con la forza chiunque minacci il suo regno e il suo dominio. E tra i pezzi del meccanismo ci sono anche coloro che ne approfittano, facendosi usare e usandolo non appena si presenta l’opportunità, come fanno Catesby e Buckingham. Il primo, interpretato da Nicola Lorusso, dimostra tutta la sua inettitudine nello scambiare la propria libertà in cambio di un telefono regalatogli da Riccardo, per poi scappare non appena quest’ultimo perde tutto il suo potere. Il secondo, interpretato da Jacopo Venturiero, fugge passando dalla parte dei rivali dopo essersi rifiutato di uccidere i due figli di Elisabetta.

Difatti, Riccardo alla fine rimane solo con i suoi pensieri e i suoi spettri, che lo maledicono uno ad uno (e, del resto, il suo destino potevamo già intuirlo durante la scena dell’incoronazione, che sembra più un’ultima cena che un insediamento). La follia e il rimorso si impossessano di lui, chiuso in quello chalet tanto rappresentativo del suo regno di terrore, quanto della sua mente perversa e sadica. Il tiranno spodestato, che ha sempre manipolato gli altri con le parole, ora è costretto a parlare da solo con la sua personalità dissociata e frammentaria, abbandonato anche dalla sua stessa madre, Cecilia (interpretata da Manuela Kustermann). La fine di Riccardo si esaurisce in pochi minuti, in un tentativo disperato di riconoscersi nel suo volto stravolto, riflesso – un po’ come un Narciso – nella telecamera che tutto riprendeva delle sue gesta. Il suo destino è quello di finire crivellato in mezzo ai sacchi di cadaveri addossati a un angolo della scena, reso senza identità proprio come le sue vittime. In conclusione, il Riccardo III di Székely reinterpreta la tragedia shakesperiana con eleganza e raffinatezza, riportandola ai giorni nostri senza nessuno scrupolo e pietà per gli spettatori.

Tout court