Libertà d’espressione o libertà dalle sue conseguenze?

La libertà d’espressione in Europa è sotto attacco. Ma noi Europei siamo davvero tutti Charlie?

Il 31 gennaio, a distanza di tre settimane dall’attentato parigino, Luz, uno dei pochi  illustratori sopravvissuti, ha deciso di rilasciare un’intervista a Vice News, in cui ha spiegato chi è Charlie, e perché la sua trasformazione in simbolo desti alcune perplessità. Charlie era stato più volte oggetto di ondate d’indignazione e profonda ammirazione al tempo stesso. Già nel novembre del 2011, quando  la sede parigina della rivista era andata distrutta a causa di un incendio doloso a pochi giorni dalla pubblicazione di un “Maometto-pupazzo” fin troppo gagliardo sulle copertine del nuovo “Charia Hebdo” ( in occasione della nuova ondata di islamizzazione in Libia e Tunisia),  i vignettisti avevano assunto la fama di eroi, difensori della libertà d’espressione, vittime. Ma mai come a poche ore dall’attentato, Charlie Hebdo era diventato un simbolo. #jesuischarlie è diventato un inno rivoluzionario a portata di click, in un momento in cui allontanarsi dal rumore assordante dei click per riflettere sulla complessità della situazione sarebbe stato più rivoluzionario: avrebbe reso l’urlo informe di solidarietà, pensiero dotato di forma. Eppure Charlie “ha sempre cercato di combattere contro i tabù, i simboli, contro qualsiasi forma di fanatismo”. Perché allora quest’urgenza di esprimere solidarietà dichiarando di essere Charlie? Io, come ha scritto Roxane Gay, non sono Charlie, non sono Ahmed, non sono ebrea, e non sono nemmeno una terrorista. Riconosco che la libertà d’espressione è un diritto-valore complesso, e non assoluto, che si presta ad essere accolto solo in seguito al giudizio, quindi in maniera non automatica e non immediata. Quando le Sentinelle in piedi scendono nelle piazze d’Italia a manifestare la loro fobia per il diverso, una parte di me ritratterebbe volentieri sulla libertà d’espressione, forse per il rischio che la fobia porta con se di esporsi al contagio e di trasformarsi in odio. E non solo le fobie, evidentemente. Anche l’umorismo, specie quando assume la forma di satira( persino il dibattito, come testimonia quanto avvenuto a Copenaghen), si presta ad essere frainteso e a generare violenza. Cos’è  allora la libertà d’espressione e chi ha diritto di proclamarsene difensore? È quanto meno auspicabile che per “espressione”  si intenda un pensiero espresso in modo pacifico, nella misura in cui sia dato contrattaccare ad armi pari, e che chi se ne faccia il difensore, non la neghi al prossimo. Forse allora, è opportuno chiedersi, prima di dirsi Charlie, se siamo ancora favorevoli senza riserve alla libertà di espressione e non solo alla libertà dalle sue conseguenze; che l’omicidio sia sempre un a conseguenza inaccettabile, è un giudizio che si presta ad un immediato consenso. Al termine dell’intervista, Luz puntualizza che non tutti possono essere Charlie.  Ironica, la presenza di un rappresentante dell’Arabia Saudita alla manifestazione di Parigi, lo stesso paese che ha condannato a 10 anni di carcere e alla flagellazione il blogger Badawi.  “Non è Charlie!”, protesta: non possono esserlo tutti i potenti che negano ai loro popoli il diritto di ridere di loro attraverso le vignette e attraverso la stampa.

Carlotta Garofalo