Il 2015 è un anno con la A maiuscola. È l’anno del Jobs Act, dell’Expo, dell’elezione del nuovo Presidente della Repubblica. In questo senso è l’anno in cui (meglio tardi che mai?) alcune promesse si realizzano. Ma è anche l’anno in cui “ricorrono” e per questo si ricordano alcuni importanti avvenimenti storici.
Ricorre il centenario dell’entrata dell’Italia nella prima guerra mondiale.
Ricorre il settantesimo anniversario della liberazione dal fascismo.
Ricorre- oggi 24 Aprile- il centenario del genocidio degli armeni, forse il meno conosciuto tra i genocidi del XX secolo.
Curioso, perché il termine “genocidio” fu coniato dallo storico polacco Raphael Lemkin proprio allo scopo di definire lo sterminio della popolazione armena.
Eppure, a dispetto dell’opinione di chi coniò il termine, non a tutti piace parlare di genocidio in riferimento a quei fatti storici. Non piace alla Turchia, che ne fu artefice, e che a distanza di 100 anni nega quanto gli storici oggi affermano senza esitazione: che si trattò della prima pianificazione ed esecuzione dello sterminio di un popolo. Secondo la versione turca invece, le uccisioni di 2,5 milioni di armeni furono dovute alla necessità di respingerne l’invasione e difendere le frontiere.
Per quanto possa sembrare curioso ad una generazione assuefatta dalle ricorrenze, dai minuti di silenzio e dagli obblighi istituzionali a ricordare, proclamare una ricorrenza può non essere un atto neutrale e automatico. Non lo è di sicuro per la Turchia, per la quale proclamare la ricorrenza del genocidio armeno significherebbe assumersi la responsabilità del più grave crimine internazionale e sollecitare la fine dell’odio razziale verso gli armeni, ancora vivace in certe frange nazionaliste della società turca.
La storia si fa ancora più curiosa se si pensa che la Turchia, pur non appartenendo all’Unione Europea, è uno degli stati membri del Consiglio d’Europa, organizzazione internazionale impegnata nella promozione della democrazia e dei diritti umani. Quella stessa Europa in cui, da alcuni anni a questa parte, le parole più che pietre sono diventate elementi di veri e propri reati, ed in cui Dogu Perinçek, presidente del partito nazionalista di sinistra turco, è stato detenuto per 90 giorni per aver affermato pubblicamente che i fatti compiuti contro il popolo armeno non costituiscono genocidio.
La Corte Europea dei diritti dell’Uomo sarà chiamata a prendere posizione sull’effettività del genocidio (una posizione non priva di un significato “politico”), e eventualmente a dare versione giuridica ad una verità storica ormai affermata. Dovrà poi riconsiderare una questione su cui si era già espressa: se sia necessario in una società democratica che il negazionismo sia oggetto di una norma penale, ovvero che chi nega un fatto storico della gravità del genocidio venga punito col carcere. La verità che la Corte dovrebbe raccontarci, in quel caso, sarebbe un’altra ancora: che l’obbligo istituzionale di ricordare la storia, rivelatosi inefficace a prevenire il suo ripetersi, ha lasciato il posto al divieto (penale) di negarla.
(Carlotta Garofalo)