Tempo di nuove mostre al Mart di Rovereto. Fino al 26 marzo 2025 è visitabile “Etruschi del Novecento”, un progetto espositivo che vede tra i vari partner del museo trentino la Fondazione Rovato di Milano, una delle realtà più attive nell’ambito della promozione della cultura etrusca. Curata da Lucia Mannini, Anna Mazzanti, Giulio Paolucci e Alessandra Tiddia, la ricerca che ha condotto a questo ambizioso progetto è stata fatta cercando punti di contatto tra la cultura figurativa del ‘900 e la cultura etrusca. Nel ‘900 furono rinvenuti in Italia due importanti pezzi Etruschi, l’Apollo di Veio e l’Ermes. In particolare l’eco di scoperte sensazionali come quella dell’Apollo di Veio (del IV secolo a.C. la scultura in terracotta dipinta, alta quasi due metri, fu ritrovata nel 1916 ed è oggi conservata al Museo di Villa Giulia a Roma) portò alla diffusione di numerosi studi e pubblicazioni e alla ripresa di stili, forme, temi, materiali.
I reperti esposti a Villa Giulia negli anni Venti hanno sollecitato interesse e documentazione sull’arte etrusca anche da parte degli artisti moderni e contemporanei che raccolsero fin da subito spunti da quell’arte del passato o ne furono sollecitati per esprimere in modi diversi i propri sentimenti. Il sorriso arcaico, gli animali fantastici, la vita e la morte, il culto del popolo misterioso ammaliarono i moderni, affascinati dallo stile denso, sintetico, sincero, “primitivo”.
Questa nuova mostra del Mart segue a ruota quella su Giotto e la relazione con il ‘900. Giotto fu il padre della pittura italiana, gli etruschi vengono considerati i padri della cultura italica. La mostra è un viaggio che ci apre a questo mondo. Si inizia con un artista come Michelangelo Pistoletto con l’opera “L’Etrusco” del 1976 che ci porta in uno spazio e in un tempo diverso dal nostro. Pistoletto realizza un’opera in bronzo che rappresenta un arringatore etrusco-romano. Artista esponente dell’arte povera, Pistoletto pone la scultura davanti ad uno specchio, che nelle sue opere rappresenta “l’alternativa alla vecchia prospettiva”. Come spiega l’artista, il braccio teso indica “la strada che porta al di là del muro su cui l’umana individualità si sta sfracellando”.
Le prime due sale dell’ampio allestimento cercano di restituire visivamente quegli strumenti che gli artisti del ‘900 hanno avuto a disposizione per avvicinarsi alla cultura etrusca. Troviamo infatti il “Capro rampante” una piccola scultura in bronzo della fine del VI secolo a.C. che fu rinvenuta a Bibbona (LI), oggi conservata al Museo Archeologico Nazionale di Firenze. La disciplina dell’Etruscologia si afferma nel corso degli anni Venti e Trenta con il primo Convegno Nazionale di Studi Etruschi (1926) e la fondazione dell’Istituto Nazionale di Studi Etruschi (1932). In quel periodo si i moltiplicano gli scritti dedicati allo studio sulla vita, sulla cultura e sull’arte etrusca, vengono pubblicati ampi repertori di immagini e anche nella letteratura si trovano tracce di questo interesse. Opere come il “Capro rampante” furono inoltre considerate moderne dagli artisti e intellettuali di allora. Ardengo Soffici ad esempio invitò Picasso a Firenze dicendogli che a Volterra avrebbe potuto trovare spunti per la sua ricerca innovativa.
Il secondo dopoguerra vede un altro importante momento di approfondimento. Nei primi anni Cinquanta Firenze ospita la Mostra di pittura etrusca e la Mostra della scultura etrusca, mentre tra 1955 e 1956 si svolge la Mostra dell’arte e della civiltà etrusca, una vasta rassegna scientifica che si avvale del lavoro dell’archeologo Massimo Pallottino. La civiltà etrusca viene fatta conoscere così al grande pubblico e la terza tappa di questa mostra itinerante, tenutasi all’Aia, è intitolata Il segreto degli Etruschi per evocare l’atmosfera di mistero che in quell’epoca veniva associata alle civiltà non classiche. Negli anni Ottanta, infine, spicca il Progetto Etruschi: una serie di iniziative culturali promosse da Ministero dei Beni Culturali e Regione Toscana nell’estate del 1985.
Ma anche prima del 1916 gli etruschi erano conosciuti anche se non c’era una conoscenza filologica, c’era invece un approccio e interesse più misterico, di cui si appropriò anche Gabriele d’Annunzio. Negli anni dei suoi viaggi a Volterra, dove ambientò il suo romanzo “Forse che si, forse che no”, d’Annunzio lavorò all’opera drammaturgica “La città morta” che andò in scena a Parigi (1898) e a Milano (1901) con l’interpretazione di Eleonora Duse. Nel generale clima di interesse verso l’archeologia e gli scavi, il Vate mise in scena una tragedia ambientata in un tempo sospeso, nel mondo delle ombre, nel quale i protagonisti si muovono tra un repertorio indistinto di copie di opere archeologiche. In mostra troviamo lavori che testimoniano la diffusione di un ampio mercato di copie e falsi come, ad esempio, una replica moderna del celebre Trono Corsini, scolpito nel marmo in epoca romana secondo lo stile etrusco. Questo oggetto realizzato in terracotta dalla Manifattura di Signa campeggiava al centro del palco nella rappresentazione teatrale del dramma dannunziano “La città morta” a Milano.
La mostra del Mart pone l’accento anche sulle sculture etrusche che sono realizzate nella gran parte da materiali come la terracotta e presentano colori. Ciò che le contraddistingue e che colpì gli artisti del ‘900 è la presenza di sguardi ieratici ed enigmatici. Alcune sono sculture più composte, altre sono frammentarie. Per gli artisti del primo e secondo dopoguerra l’elemento del frammento ebbe un grande valore che si ritroverà nei loro lavori trattati anch’essi come frammenti come ad esempio nella scultura “Marinella” del 1921 di Arturo Martini.
Nel percorso espositivo viene indagato anche il campo della moda, con esempi di linee moderne come “Etrusca” di Fernanda Gattinoni influenzate dalla mostra milanese del ’55 che venne dedicata alla cultura etrusca. I colori degli abiti – anche da sera – sono semplici e i motivi decorativi sono ispirati alle tombe di Tarquinia.
Alcune teche nel percorso custodiscono anche dei gioielli, realizzati ad esempio dalla Manifattura Castellani, da Arnaldo Pomodoro, da Fausto Melotti, da Afro Basaldella, che coprono un arco temporale che arriva fino al 1985, caratterizzati in alcuni esemplari anche dallo studio e ripresa della tecnica etrusca della granulazione.
Nel percorso è possibile vedere inoltre dei lavori novecenteschi di teste in terracotta che in alcuni casi sono caratterizzate anche da una sorta sfrangiatura. La terracotta e il suo uso da parte degli artisti di quel tempo evidenzia una presa di campo rispetto a quell’arte celebrativa che invece privilegiava l’uso del marmo. Alcuni artisti si concentrano anche nella realizzazione di canopi alla maniera etrusca, come ad esempio nel “Busto di Inge” del 1967 c. di Giacomo Manzù, o riprendono il tema della testa e del vaso come Massimo Campigli nel dipinto “Testa di profilo con anfora” del 1930.
Non manca lungo il percorso espositivo una riflessione sul rapporto con l’aldilà e come quello degli etruschi venne letto da molti artisti del ‘900 sia in termini relazionali che iconografici. Il celebre “Sarcofago degli sposi” conservato al Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma trova in mostra differenti rivisitazioni dove l’antico abbraccio diventa una scena di vita quotidiana e intimità.
Spazio inoltre alla reinterpretazione degli idoli alla maniera etrusca. Gli artisti del ‘900 tornano al piccolo bronzetto dove però i corpi si fanno materici, anche sgraziati e informi, come ad esempio in alcuni lavori di Picasso, Giacometti, Marini, Melotti, ecc.
Oltre a opere in terracotta e bronzo gli artisti del ‘900 riscoprono anche antiche tecniche che permettono loro di rinnovare ad esempio l’arte ceramica. Ad esempio Gio Ponti venne ingaggiato dalla Società Ceramica Richard-Ginori per realizzare qualcosa che fosse nuovo però riconoscibile come italiano. Per fare questo Ponti si recò nei musei archeologici e raccolse ispirazioni che diedero vita a “Cista La conversazione classica”, del 1925.
La mostra si chiude con una sala dedicata all’“attualità della chimera” estrusca . Evocata in mostra da piccola una chimera etrusca e da interpretazioni scultoree dagli anni Trenta come quelle di Martini e Basaldella, diventa tema centrale nella grande opera “Amare chimere (La Chimera)”, esito della performance del 1985 di Mario Schifano.
Info e biglietti su www.mart.trento.it.
In copertina: Mario Schifano, Amare chimere (La Chimera), 1985, Collezione privata