Essere donna nel 2021: quali sono le vere sfide?

Urlare alla parità di genere è molto semplice e utilizzare stereotipi lo è ancora di più, nei fatti cosa succede realmente?

di Martina Bartocci

Ricorre oggi la Giornata internazionale dei diritti della donna: una celebrazione importante, nata nel secolo scorso per sostenere la parità di genere. Ogni anno, l’8 marzo colora il calendario di giallo e tante donne vengono omaggiate di mimose, un fiore scelto dalla parlamentare Teresa Mattei proprio per rappresentare al meglio la figura femminile: nonostante l’apparente fragilità infatti, si tratta di una pianta che è capace di fiorire anche nei terreni più difficili. Ed è proprio questa capacità di resistere e di lottare contro ambienti aridi e maschilisti a forgiare la forza della donna di oggi.

Ma cosa significa effettivamente parità di genere? Nei giorni scorsi, in occasione della kermesse sanremese, si è molto parlato della necessità o dell’opportunità di declinare al femminile i nomi delle professioni. C’è chi afferma che la parità debba essere sostanziale piuttosto che formale e che quindi una donna debba essere “avvocato” e non “avvocata”, “direttore d’orchestra” e non “direttrice”. Di altro parere è chi crede che le parole veicolino dei messaggi e che sia importante sottolineare che una determinata professione venga svolta da una donna, per dare dignità al lavoro di quest’ultima. Chi vi scrive pensa, molto più semplicemente, che la donna emancipata del ventunesimo secolo abbia un grande privilegio: la libertà. La libertà di espressione, la libertà di scelta, la libertà di disporre del proprio corpo: perché dunque non lasciarla libera anche nel nome? Se una donna vuole essere chiamata “ministro” e non “ministra”, o al contrario, se vuole essere appellata “ingegnera” e non “ingegnere”, qual è il problema? Qualunque sia il suo nome, la sua professione, il suo ruolo sociale, meriterà sempre e comunque rispetto in quanto essere umano dotato della stessa dignità e degli stessi diritti riconosciuti all’uomo. Costringere qualcuno ad adeguarsi a convenzioni sociali non è già di per sé una discriminazione?

Sono piuttosto altri i problemi che nel 2021 ancora pongono la donna in una condizione di arretratezza e di subordinazione rispetto all’uomo. Pochi giorni fa a Milano, una trentaduenne di origini marocchine, fingendo di ordinare una pizza Margherita, ha chiamato il 112 e si è salvata dalle violenze inaudite e ricorrenti del suo compagno. Come lei tante donne, soprattutto durante la quarantena, hanno vissuto in case piene di urla e di schiaffi, senza possibilità di uscire e di chiedere aiuto. Sono violenze silenziose e il più delle volte inaspettate, che mercificano il corpo della donna rendendolo un semplice sacco da boxe. Perché un uomo si sente in diritto di alzare le mani su una donna? Perché, evidentemente, vive in una società in cui la violenza di genere è un fenomeno ancora troppo taciuto e scontato, qualcosa che succede e che raramente verrà scoperto e condannato. La violenza fisica rappresenta l’apice della subordinazione femminile, ma esiste una discriminazione lenta e logorante anche in altri ambiti: come non pensare al fattore occupazionale e retributivo. Il rapporto 2019 sulla Condizione occupazionale dei laureati di AlmaLaurea mostra che, ad un lustro dal titolo di laurea, i contratti a tempo indeterminato sono una prerogativa tutta maschile, riguardano il 63% degli uomini ed il 52,6% delle donne. Inoltre, tra i laureati magistrali biennali che iniziano l’attività dopo la laurea a tempo pieno, lo stipendio medio è di 1688 euro per gli uomini e di 1444 euro per le donne. Per non parlare della penalizzazione che queste ultime subiscono se hanno figli: una donna con una famiglia è più “problematica” per un’impresa, si assenta spesso, ha bisogno di permessi e potrebbe rimanere incinta di nuovo. Come se procreare e mandare avanti l’umanità fosse più una colpa che un vantaggio. Se le donne non fanno più figli, chi mettiamo a lavorare nelle aziende? Finiremo per avere un mondo pieno di robot…

E’ vero, la donna è anatomicamente ed emotivamente diversa dall’uomo. Ha caratteristiche fisiche e psicologiche uniche, ma unico non può essere sinonimo di sbagliato. E’ nella diversità che va cercata l’uguaglianza. La donna ha delle doti che l’uomo oggettivamente non ha e, proprio per questo, non può che completare e migliorare la figura maschile. L’incontro dei due sessi, sia esso in un rapporto sentimentale, sia esso in un rapporto lavorativo, non può che essere fonte di arricchimento. Una donna deve essere apprezzata per le sue competenze, per il suo impegno e deve guadagnarsi il campo allo stesso modo di un uomo, purché però ci sia un arbitro imparziale: una società imparziale.

 

img.source: Libreria Gregoriana Estense