L’Europa è una “storia di successo”. Giunta al termine?

Una riflessione sull'Unione Europea attuale e futura.

L’Europa è una “storia di successo”. Giunta al termine?

di Gaspare Nevola*

“Qui non è in ballo la Grecia, è in ballo l’Europa”.  Così si è espresso qualche giorno fa Wolfgang Schaeuble, mentre il Parlamento di Germania votava a favore dell’accordo dell’Unione Europea con la Grecia. Al rigoroso e burbero ministro delle finanze tedesco, all’inflessibile antagonista della Grecia di Tsipras si possono imputare diverse responsabilità per il modo discutibile in cui l’Unione Europea ha affrontato la crisi greca.

La sua linea politica si caratterizza per un misto di rigidità finanziaria, logica di potenza e democrazia nazionalista: riconosce l’UE come un particolare spazio di relazioni interstatali prima ancora che come uno spazio “comunitario”. Si tratta di una posizione che ben rappresenta la cultura politica prevalente oggi in Germania e che fa a pugni con l’europeismo tedesco di qualche tempo fa.

Non a caso, il tedesco Juergen Habermas, uno dei più autorevoli filosofi e uno degli intellettuali più incrollabilmente europeisti del nostro tempo, ha dichiarato con inusitata durezza: “Temo che il governo tedesco, compresa la componente socialdemocratica, si sia giocato in una notte tutto il capitale politico che la migliore Germania aveva accumulato in mezzo secolo”. A Schaeuble dobbiamo tuttavia dare atto di essere coerente nella sua posizione di sostenitore di un’”Europa a doppia velocità” e di essere lucido quando afferma che con la vicenda del debito greco a essere in gioco non è solo Atene ma l’Europa stessa. E’ però il caso di capire di “quale” Europa stiamo parlando. 

Affermarlo oggi può sembrare ironico. Ma l’Unione Europea rappresenta una “storia di successo” di integrazione macroregionale. Interessa una vasta area continentale e densamente popolata, economicamente sviluppata e ricca di storia e cultura, culla di civiltà politica e terra di modernità. L’UE rappresenta il 20% circa dell’economia e delle esportazioni mondiali.

E’ una potenza economica e commerciale, paragonabile agli Stati Uniti, anche se ormai deve fare i conti pure con la Cina. L’UE appare come un ambizioso tentativo di innovazione politico-istituzionale: estendere oltre lo spazio politico dello Stato-nazione i modi e i contenuti della democrazia; realizzare l’integrazione di una pluralità di culture politiche nazionali, religiose, economiche nella libertà e nel riconoscimento reciproco, in modo pacifico, limitando i “costi” (inevitabili nei processi di integrazione) o cercando di distribuirli secondo equità e solidarietà.

Tuttavia, i risultati effettivamente conseguiti faticano a corrispondere a questo disegno, frustrando le aspettative del cittadino comune ma anche l’opinione pubblica di élite. Nella politica contemporanea l’UE è profondamente divisa al suo interno, impotente di fronte alle crisi internazionali, attraversata da forte scollamento tra gli intendimenti proclamati dalle classi dirigenti europeiste, i comportamenti effettivi dei governi nazionali e delle élites transnazionali, gli orientamenti scettici di molte forze politiche e fette di opinione pubblica.

Emblematica di questa situazione è l’incapacità di gestione comunitaria delle crisi che le si parano dinnanzi: la persistente crisi economico-finanziara e le sue ricadute sociali; quella della finanza pubblica e degli scenari di indebitamento di numerosi Stati europei, paralizzati tra politiche neo-liberiste dell’”austerità” e “fallimento” statale (di cui il caso greco è solo l’esempio più eclatante del momento); la “crisi migratoria” (con tanto di ripristino di blocchi o controlli alle frontiere intraeuropee); le crisi geopolitiche e i conflitti in aree storicamente e tutt’ora nevralgiche per l’Europa.

L’UE mostra sempre più il volto di “organizzatore di interessi” nazionali su scala europea o globale, si esprime secondo dinamiche geopolitiche e geoeconomiche di tipo interstatale. Dinamiche di sapore neo-imperiale, sebbene il “centro dell’impero” non sia da ricercare solo in alcuni Stati europei (Germania, Francia, Gran Bretagna) ma anche nel loro rapporto con Stati extra-europei e con  élites globali che governano i mercati finanziari e che sono difficili da identificare come attori sul palcoscenico delle responsabilità pubbliche. Del resto, si sa, la politica ha un lato “poco visibile” accanto a quello “visibile”. 

Parlare, poi, di “democrazia europea” è cosa impropria. Basta osservare come il Parlamento europeo sia sistematicamente marginale nella gestione dei problemi rilevanti, così come secondario è il ruolo della Commissione Europea. Tra le istituzioni europee “sovranazionali” a “contare” sempre più è la Banca Centrale Europea: ma di questa si può dire di tutto, nel bene o nel male, eccetto che sia democratica. Così, nelle questioni che contano, la democrazia del nostro tempo è sempre più “democrazia delegata” - che non va confusa con quella rappresentativa di tradizione liberale, peraltro in cattive acque.

Le ragioni del decadimento del progetto europeo non sono casuali, né banali. In parte sono il riflesso dello scarto tra l’esperienza integrativa europea e quella che è invece la logica dei processi di sviluppo politico; in parte il riflesso dell’esaurimento, viepiù evidente, di una stagione storica costellata da programmi ambiziosi.

Fino a un paio di generazioni fa, la costruzione europea era forte di alcuni precisi motivi storico-politici: la catastrofe della seconda guerra mondiale, con correlata sconfitta della Germania nazista; protezione americana e alleanza atlantica; necessità di seppellire i vecchi conflitti intra-europei e volontà di ricomporli con gli strumenti dell’economia e della democrazia.

Già vent’anni fa lo storico Stuermer notava che la storia aveva fatto il suo corso, rendendo obsoleti questi elementi politici dell’ideale europeo. C’è del vero in questa analisi. Tuttavia, persistano alcune esigenze storico-politiche di più lungo respiro alle quali anche l’Europa di oggi potrebbe guardare se volesse davvero ridisegnare il suo volto. Ad esempio: estendere il mantenimento della pace e del benessere, specie in aree geopolitiche cruciali; salvaguardare e ridefinire lo sviluppo economico come mezzo per diffondere il benessere tra le popolazioni europee ma anche extra-europee, abbinando competitività economica e “razionalità” della spesa e del debito pubblico tanto alla protezione sociale dei più deboli quanto ad un più sano, equo e realisticamente sostenibile stile di vita e dei consumi; alimentare il motore democratico dei processi decisionali, confrontandosi seriamente con le sfide popolari anziché liquidarle come mera espressione di ottuso populismo strumentalizzato da improvvisati imprenditori di consenso.

L’UE non è in grado di rispondere a tali esigenze.

Talora sembra erigersi a erede del Leviatano, talaltra corre sull’orlo di precipitare in un novello Behemoth. Forse ripensare i problemi di convivenza tra europei in termini di “democrazia della sussidiarietà” potrebbe aiutarci a maneggiare il rompicapo con cui abbiamo  a che fare, le frustrazioni e i risentimenti reciproci: organizzare la democrazia dal basso e dal piccolo, salendo man mano di scala poltico-territoriale e istituzionale.

Si tratterebbe di mettere d’accordo Rousseau e Madison: non facile. Ma dovremmo provarci. E’ in gioco la qualità e la dignità del nostro del nostro vivere secondo libertà e giustizia. L’efficienza, ricordiamolo, è un “mezzo” non il “fine”. I trattati comunitari evocano il principio di sussidiarietà.

Ma non l’hanno mai ben inteso.

 

 

(*Prof. Di Scienza Politica presso l'Università degli Studi di Trento e autore di "Democrazia, costituzione, identità. Prospettive e limiti dell'integrazione europea")

 

foto: Unione Europea

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