Economia, commercio e sicurezza: un nuovo equilibrio? Intervista al professor Andrea Fracasso

Qualche giorno fa, l’amministrazione statunitense ha annunciato l’imposizione di dazi su tutti i prodotti europei, accusando l’Unione Europea di essere nata per “fregare gli Stati Uniti” e aggravando ulteriormente il gelo nelle relazioni transatlantiche. Due giorni dopo, l’arroganza e il disprezzo con cui Trump ha trattato il presidente ucraino Zelensky, proprio mentre un accordo sui minerali doveva segnare un passo cruciale nei negoziati, hanno sconvolto la comunità internazionale, aumentando il disorientamento generale di fronte ai profondi cambiamenti in atto.

Di queste sfide globali ne abbiamo parlato con Andrea Fracasso, Professore di Economic Security presso la Scuola di Studi Internazionali dell’Università di Trento. Partendo dall’imposizione dei dazi e dalle loro implicazioni sul commercio internazionale, ci siamo interrogati sul legame tra economia e sicurezza e su quanto questo rappresenti un cambio di paradigma per l’Unione Europea. 

L’amministrazione Trump ha nuovamente annunciato l’imposizione di dazi del 25% su tutti i prodotti europei. Vorrei capire con lei quali sono le ragioni dietro a questa scelta. Sappiamo che l’Europa ha un surplus commerciale con gli Stati Uniti nello scambio di beni, mentre gli Stati Uniti hanno un netto vantaggio nei servizi: cosa ci dice questa differenza sulle dinamiche economiche e sulle relazioni commerciali tra i due paesi? Può da sola giustificare l’imposizione di simili dazi?

È difficile capire le motivazioni dietro alla scelta di imporre simili dazi. Parte di questo squilibrio commerciale è certamente legata al modello economico di crescita statunitense, caratterizzato da un elevato consumo interno al Paese, sia nel pubblico che nel privato, mentre il modello europeo, segnato anche dall’austerity, è stato caratterizzato da pochi investimenti e spesa rispetto agli standard internazionali. Tuttavia, se la preoccupazione è questo squilibrio commerciale, i dazi non sono la risposta adeguata. 

I dazi rappresentano da una parte una scelta ideologica (presente già nel primo mandato), che vede il deficit americano come problema da risolvere in termini di ribilanciamento del commercio internazionale in modo più favorevole agli Stati Uniti; dall’altra, l’imposizione di dazi può rappresentare una strategia di negoziazione per entrare in trattative che si tradurrebbero in un aggiustamento di domanda, in particolare nell’acquisto di alcuni beni strategici per gli Stati Uniti, come il gas. Ancora, i dazi potrebbero avere l’obiettivo di colpire beni e settori caratterizzati effettivamente da uno squilibrio e voler così garantire un vantaggio competitivo alle imprese statunitensi. Sono spiegazioni diverse, ma tutte vengono menzionate a fasi alterne, e spesso le azioni prese non corrispondono alle motivazioni addotte, per questo c’è confusione a riguardo. 

Dazi, sanzioni e restrizioni al commercio sono complessi da maneggiare e spesso sortiscono effetti contrari a quelli voluti. Gli Stati Uniti possono reggere una guerra commerciale allo stesso tempo con Messico, Canada, Cina e Unione Europea? 

Dipende dall’ampiezza dell’azione. Se l’interesse è di proteggere un settore, come l’acciaio, è chiaro che iniziare a imporre dazi molto alti verso un paese implichi farlo anche verso gli altri; ma questo accade quando si vuole proteggere un settore domestico specifico. Se ci fossero azioni mirate verso settori nei quali si vuole sostenere la produzione interna agli Usa, quindi, i dazi avrebbero un senso, pur causando un aumento del costo della produzione domestica, dei prezzi e generando inflazione. 

Un’applicazione generalizzata di dazi, tuttavia, come è minacciata adesso, non solo produce l’effetto appena descritto, ma ha un effetto depressivo su tutta l’economia: potrebbe sì contribuire a ridurre il deficit, ma a prezzo di un impatto negativo più ampio.

Da quello che noi leggiamo in questo momento, sembra che non ci siano né azioni strategiche mirate, né così ampie, in quanto ci si sta limitando ad annunci ancora vaghi, per cui è difficile capire in che direzione si sta andando. 

La politica commerciale di Trump sembra puntare su accordi bilaterali più che multilaterali. Se saranno applicati dazi all’UE, crede che verranno messe in atto differenze tra i paesi? Potremmo vedere dazi selettivi su alcuni paesi dell’UE? 

Potrebbe esserci un effetto differenziato tra i paesi, ottenuto attraverso una strategia differenziata, ad esempio introducendo misure che vanno a colpire prodotti specifici che provengono da certi paesi. 

Ad ogni modo c’è da fare una considerazione più ampia: quando si fanno accordi internazionali di liberalizzazione, l’idea è che ci sia un equilibrio nei vantaggi reciproci, ed è chiaro che questo vada ad avvantaggiare o svantaggiare settori diversi in modo differente, ma questo è tipico della specializzazione, che caratterizza il commercio internazionale. Quando si vanno a introdurre limitazioni al commercio in numerosi settori, si va a modificare la natura generale dell’accordo, andando a modificare l’intero sistema di collaborazione internazionale.  Anche eventuali rappresaglie in risposta ai dazi hanno un impatto enorme, e quando questo interessa tanti settori significa ridiscutere l’intero sistema multilaterale di negoziazione. 

Lei ha parlato di settori strategici: allora le chiedo, quali potrebbero essere i settori colpiti e come potrebbe reagire l’UE? Converrebbe rispondere con misure di ritorsione o adottare un atteggiamento più prudente?

Per quanto riguarda i settori colpiti, dipende dall’obiettivo dei dazi. Se l’obiettivo è di creare danno all’UE in modo che l’UE possa negoziare qualcos’altro, la scelta su quali settori colpire potrebbe ricadere su quelli più politicamente rappresentati, come l’agricoltura, o quelli che stanno vivendo un momento di difficoltà economica, come quello dell’auto.

Se invece l’obiettivo è di avvantaggiare i produttori americani, i dazi dovrebbero colpire i settori che sono più in difficoltà in America. Il fatto che noi non sappiamo cosa verrà fatto ci impedisce di capirne le ragioni e di capire quale sarà la risposta: imporre dazi equivalenti può essere temporaneamente un modo per creare un danno simile e andare alla trattativa, ma sul lungo periodo i dazi riducono l’efficienza, aumentano i prezzi e distorcono il commercio, non sono dunque la soluzione. L’ideale è tornare a commerciare magari sotto nuovi accordi. 

Le tensioni tra USA e UE dipendono anche dalla rigida regolamentazione europea del digitale e dai contenziosi con le big tech americane. L’Unione Europea fa bene a mantenere una linea così stringente sulla privacy? Il rischio, in parte già avverato, è quello di frenare l’innovazione e avvantaggiare Stati Uniti e Cina: quanto rischiamo di rimanere indietro? 

È un tema molto complicato, innanzitutto bisogna capire qual è la dimensione. Se la dimensione è europea, come indica il rapporto Draghi, proteggere i dati dentro l’UE, anche con requisiti di sicurezza molto elevati, significa comunque poter disporre di una quantità di dati molto rilevante. Se però la GDPR e altre regolamentazioni impediscono lo scambio di dati dentro l’UE, così come lo sviluppo di un certo tipo di business, è chiaro che si va a svantaggiare l’interesse comune. 

Il problema da porsi è come creare data union nell’UE tutelando la privacy e proteggendo dal rischio che imprese non soggette a questi regolamenti nell’Unione possano comportarsi diversamente. 

Dobbiamo poi considerare, oltre alla protezione dei dati e delle informazioni individuali, il risvolto economico: le imprese che utilizzano questi sistemi spesso raggiungono dimensioni tali da generare oligopoli, i quali sfruttano i dati con conseguenze pervasive a livello di comunicazione e informazione. Da un lato dobbiamo tutelare la privacy degli individui, dall’altra il funzionamento socioeconomico delle democrazie: qualche restrizione in ambito europeo è necessaria, ma non deve creare fratture tra gli Stati, impedendo un modo di fare crescita comune.  

Competitività, autonomia, resilienza: l’UE ha compreso quali sono le sue priorità strategiche, ma sembra essere ancora lenta nel realizzarle. Crede che riuscirà ad accelerare? 

Da un lato c’è la consapevolezza che l’UE debba valorizzare la dimensione del mercato comune, e debba farlo in modo meno difensivo; dall’altro lato però, la capacità delle imprese e delle pubbliche amministrazioni di partecipare a tutto questo varia da stato a stato, è limitata da vincoli nazionali. Mentre il Rapporto Draghi e Letta hanno appunto identificato le priorità strategiche e vanno nella direzione di creare fondi comuni, gli Stati, pur concordando la linea, non vogliono trasferire ulteriori potere e risorse a Bruxelles. Quello che sicuramente vedremo è un reindirizzamento dei fondi attuali strutturali europei (inclusi i fondi di coesione e di ricerca) verso i settori più strategici. Ma stiamo parlando di una parte dell’1% del PIL. 

Non è ancora chiara la capacità di creare ulteriore massa comune, che può avvenire o creando più risorse o facendo indebitare l’Unione. La volontà di fare questo ha molto a che vedere con la natura dei governi in carica: in questo momento è improbabile il balzo evocato da Draghi, ed è proprio lì la tensione. 

Quanto dei cambiamenti necessari sono scelte politiche?

Moltissimo, in alcuni casi ci sono delle scelte che non sono economicamente motivate: si pensa che alcune tecnologie siano migliori di altre, che alcuni settori saranno i settori del futuro, ma non è necessariamente così. Se manca la capacità di coordinamento, la politica prova ad andare in alcune direzioni: investe come settore pubblico, cerca di mobilitare il privato verso alcune direzioni, anche se questo comporta un certo grado di rischio. Ma quando gli stati fanno politica industriale, questo fa parte del gioco. 

Non possiamo non menzionare la difesa europea: gli Stati Uniti richiedono ai Paesi NATO di alzare la spesa militare al 5% del Pil, quando molti stati non raggiungono nemmeno il 2%. Spendere di più e insieme è ormai l’imperativo, ma non è chiaro come: lei crede che l’Europa riuscirà a compiere un balzo in avanti in questo senso?

Credo che il dibattito sulla difesa sia sottosviluppato. Parlare di percentuale sul Pil è riduttivo in quanto non sappiamo se queste cifre servano per il materiale, per il personale o per la ricerca e sviluppo di nuove armi. Se gli Stati Uniti preannunciano il disimpegno dall’area europea, è normale che l’UE debba compiere uno sforzo straordinario per costruire uno scudo di difesa nel breve periodo. Sono convinto che ora, politicamente, si stia andando verso un aumento della spesa militare, e in questo c’è anche il sostegno di tanti gruppi: politica industriale e di sicurezza in questo momento sono legate, anche perché in alcuni settori c’è l’idea che un aumento della spesa militare generi spillover su altri settori dell’economia e condizioni macroeconomiche positive. 

Tuttavia, non stiamo discutendo del dopo e degli investimenti successivi. Quello che manca è un progetto di medio e lungo termine. E anche in questo caso, l’assenza di un progetto deriva dal fatto che siamo di fronte a tante dichiarazioni dell’amministrazione statunitense, ma non a una chiara impostazione politica con delle scadenze. L’UE quindi si trova sì a doversi muovere, ma non può neanche causare quello da cui si vuole difendere.  

Dalle sue parole risulta chiaro il legame tra difesa ed economia, due sfide inseparabili per l’UE per sopravvivere. È in grado l’Unione di riformare i mercati oggi in piena crisi di sicurezza? Il fatto che queste sfide vengano insieme rappresenta forse un’opportunità? 

L’obiettivo dell’Ue è di rendersi più autonoma militarmente, comprando di più, a livello europeo, sfruttando così la capacità di acquisto: l’idea è quella di riuscire a creare una massa critica comune che renda conveniente produrre e riesca a contenere i prezzi attraverso negoziazioni centralizzate. Sì, fare un passo di questo genere può essere più facile proprio nel periodo in cui fattori esogeni rendono obbligata la scelta di investire di più. 

Per concludere, vorrei chiederle cosa ne pensa della rapidità con cui stanno avvenendo questi cambiamenti. L’evoluzione dell’ordine internazionale è in corso da tempo, ma nelle ultime settimane sembra aver subito un’accelerazione senza precedenti, al punto che ogni giorno assistiamo a stravolgimenti che rendono difficile persino stare al passo con gli eventi.

In questi giorni non so se sia meglio leggere le notizie la mattina o la sera, scegliere se rovinarsi il sonno o la giornata! Sicuramente è vero che ci sono dei trend in atto da tempo, trend che forse noi non abbiamo sempre colto, come il ritorno della spesa militare, o di una politica industriale e di commercio più aggressive. Gli Stati Uniti stanno attualmente perseguendo l’idea di smantellare l’ordine liberale internazionale a favore di un sistema basato su negoziazioni macro regionali, un approccio già adottato in passato dalla Cina con i BRICS. Questo avviene attraverso una serie infinita e ripetuta di piccoli e grandi attacchi al sistema liberale multilaterale: abbiamo un macro-panorama che sta cambiando super rapidamente, ma lo stiamo desumendo da un insieme piccolissimo di trasformazioni. Se sarà così ancora a lungo? Non necessariamente; se è una tecnica negoziale a un certo punto si negozierà, ma ciò che conta per Trump adesso è mettere tutte le carte sul tavolo e dimostrare che gli Stati Uniti sono disposti a riconsiderare l’intero ordine internazionale; potremmo poi assistere a un riassestamento degli equilibri. In ogni caso, sono convinto che sia in moto un cambiamento strutturale: se vogliamo vedere il lato positivo, questi grandi mutamenti ci fanno riflettere sull’importanza di alcuni aspetti da tutelare, elementi intangibili e non negoziabili. Primo tra questi, l’integrità dell’ordine democratico.

Articolo di Alessandra Carpenè