A tu per tu con Velasco

di Gabriele Barichello

Senza ricorrere in facili partitismi ci sono dei riferimenti culturali che non si possono prescindere, indipendentemente dalla fede sportiva. Nel caso di Julio Velasco, pietra angolare della pallavolo internazionale, questa riflessione diventa sterile e si scontra con la poliedricità del personaggio, difficilmente riassumibile in poche righe. Giocatore prima, allenatore di pallavolo poi, con un’esperienza dirigenziale anche tra le panchine del calcio (Lazio e Inter): a testimonianza che quando si parla di professionisti illuminati il contenuto va ben al di là del titolo stampato sul tesserino identificativo.

Il dialogo comincia con una riflessione sulle parole “muro” e “rete”, contestualizzandole prima nel campo da pallavolo come espediente per trattare successivamente di questi temi, al centro del fenomeno mediatico. Ennesima opinione non richiesta? Sarebbe pretestuoso interrompere qui la riflessione. Giocatore si, allenatore anche, studente di filosofia pure, Julio Velasco si è dimostrato anzitutto un campione di umanità. Nato e cresciuto a La Plata, nell’Argentina degli anni ’50, che si apprestava a scrivere alcune delle pagine più tristi della storia contemporanea e troppo spesso sacrificate dai programmi di studio delle scuole superiori. Non si può pensare di riassumere efficacemente vent’anni di repressione, torture, episodi che devono indignare il pubblico come “la notte delle matite spezzate” che coinvolse gli studenti liceali argentini, né raccontare la forza delle “Madri di Plaza de Mayo” senza scivolare in abbozzamenti, censure e pressapochismi della parola scritta.

Di fronte al quesito posto da Walter Veltroni “qual è il giorno che non vorresti rivivere mai?” Velasco fa una pausa, ci pensa, è difficile, lo ammette, per una persona dotata del suo ottimismo pensare a cosa raccontare, e poi comincia. Velasco, il giovane giocatore di pallavolo argentino, ha appena terminato una partita e, madido di sudore, si dirige verso gli spogliatoi: è stanco, sono stati dei set lunghissimi, ha solo voglia di riposare.

Fino a questo punto quindi, chiunque abbia praticato uno sport agonistico si può facilmente immedesimare nel momento in cui si forzano le gambe a muoversi, ancora, nonostante i dolori e con la promessa di un riposo prossimo: magari si è soddisfatti, magari no, ma è una storia che si ripete quotidianamente in ogni angolo del pianeta.

Viene interrotto dall’avvicinarsi di un suo conoscente che, a testa bassa, richiama la sua attenzione.

“È morto.”

Il suo migliore amico era morto mentre lui affrontava in campo l’avversario, era stato vittima dell’ennesimo, silenzioso e letale intervento della lunga mano insanguinata della Giunta militare.

Non ci sarà giustizia per questo delitto, né per gli altri quasi 40 mila compiuti in Argentina in quegli anni, un’altra goccia di sangue versato che potrà riverberare in eterno solo grazie ai pochi, coraggiosi, sopravvissuti.

Fa molto più freddo nella sala dell’incontro ora, la voce di Velasco, l’uomo presente, non si piega e nulla concede alla commozione. È un uomo che ha avuto la possibilità di viaggiare in tutto il mondo, con la delicatezza di chi si china alla conoscenza, raccogliendo le testimonianze di giocatori provenienti da realtà distanti o molto vicine alla propria, abituato a tenere sulle spalle intere squadre per lunghe ore di partita.

Essere giusti, o almeno sembrare tali, è questo il consiglio che rivolge agli allenatori di oggi, il consiglio più umano dal più umano di noi.