Tra multiculturalismo ed emarginazione: il paradosso dei Paesi del Golfo arabo

Il problema della tutela e della cittadinanza per i lavoratori migranti

di Giulia I. Guerra

In molte regioni dell’Asia orientale il concetto di cittadinanza ha dei contorni piuttosto sfumati non solo per quanto riguarda la sua applicazione alle persone migranti, bensì persino in relazione alla stessa popolazione locale. Questo è vero soprattutto nella regione del Golfo arabo, dove lacune in materia di diritti civili e politici si intrecciano al problema della regolamentarizzazione dei lavoratori immigrati.

Cosa significa “cittadinanza”

Secondo il sociologo Marshall, il concetto di cittadinanza può definirsi entro tre tipi di diritti: negativi, politici e positivi. I primi si riconducono ai diritti naturali e civili, come il diritto alla vita, la libertà di culto, la libertà di espressione, i secondi fanno riferimento al diritto dei cittadini di partecipare alla vita politica del paese, attraverso il diritto alla rappresentanza, la libertà di associazione, etc. Infine, per diritti positivi s’intende quelli necessari affinché l’individuo soddisfi i propri bisogni essenziali nella società, incontrando adeguati standard di vita, pertanto si riconducono al diritto di accesso all’istruzione, alla sanità, a una retribuzione minima. Di conseguenza, godere del diritto di cittadinanza nel territorio di uno stato significa accedere a questi diritti. Tuttavia, essi non sono garantiti universalmente all’interno delle nazioni, bensì sono talvolta soggetti a distinzioni, o discriminazioni, su base, etnica, sociale, di genere, etc.

Cittadinanza ed esclusione nel Golfo Arabo

Secondo le stime dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), nel solo 2017 i sei stati arabi membri del Consiglio di cooperazione del Golfo (GCC) avrebbero ospitato 23 milioni di lavorati migranti, che andrebbero a costituire il 27,8% della popolazione totale di questi paesi. Inoltre, essi costituiscono il 13.9% di tutti i migranti a livello globale, pertanto regolamentarizzare la loro condizione è una questione di particolare rilievo e urgenza.

Il professor James Sater, Università di Malta, ha studiato le dinamiche sociopolitiche che si sono instaurate tra nativi e immigrati nei Paesi del Golfo Arabo. Lo studioso ha sottolineato come l’impossibilità di accesso ai diritti di cittadinanza da parte dei lavoratori migranti contribuisca alla coesione sociale e politica dei cittadini di questi stati, poiché il senso di identità collettiva in queste società sembra fondarsi non tanto sul godimento di diritti politici e positivi bensì sulla creazione di forme di esclusione e separazione fra un “noi” e un “loro”.

Il paradosso dei Paesi Arabi: tra multiculturalismo e marginalizzazione

Quei Paesi Arabi definiti “rentier state” o “petrolist state”, che fondano la stabilità dei regimi politici e la prosperità dell’economia domestica nelle rendite sull’export di risorse energetiche, sono storicamente interessati da alti tassi di mobilità globale, poiché attraggono milioni di lavoratori dalle regioni vicine. Tuttavia, nella costruzione dei pur fragili stati nazionali ad oggi presenti nel Golfo arabo, le comunità di lavoratori originari di altri paesi sono state escluse dal processo di nation-building, costruzione dello stato, pertanto sin dagli anni ’90 dello scorso secolo il Medio Oriente ha ospitato la seconda più grande popolazione straniera al mondo. Proprio quest’ultima ha contribuito notevolmente allo sviluppo dell’economia della regione, in quanto i Paesi del Golfo hanno favorito l’afflusso di professionisti e lavoratori altamente specializzati allo scopo di modernizzare i settori dell’economia domestica e trasferire competenze ai connazionali, ma anche con l’obiettivo di favorire l’afflusso di investimenti stranieri per sviluppare infrastrutture e tecnologie all’avanguardia.

Tuttavia, la classe politica non si è preoccupata di favorire un processo di integrazione dei nuovi arrivati. Per giunta, non esistono forme di protezione sociale e legale per i lavoratori immigrati, in quanto il concetto di cittadinanza nei Paesi del Golfo Arabo resta legato ad una cultura di appartenenza tribale o neo-patriarcale, e il senso di identità e coesione nazionale è costruito proprio sulla distinzione rispetto a individui provenienti da confini geografici diversi. Questo meccanismo è molto pericoloso, in quanto da un lato ostacola l’integrazione delle nuove generazioni nate da lavoratori migranti, nutrendo più un senso di astio che di lealtà verso lo stato, dall’altro genera spiacevoli e sistematici episodi di abuso e discriminazione nei confronti dei lavoratori migranti, come la non corrispondenza di un salario.

Possibili scenari

Alcuni Paesi del Golfo hanno avviato riforme per fronteggiare il problema della naturalizzazione dei lavoratori migranti, ad esempio il Bahrain ha concesso la naturalizzazione ai cittadini stranieri capaci di dimostrare un certo reddito e proprietà nel paese, ma chiaramente non è una soluzione che può soddisfare tutti i lavoratori, soprattutto quelli meno qualificati e che svolgono lavori stagionali nel paese ospitante.

Soluzioni alternative possono essere forme ibride di cittadinanza, come lo ius domicilii, ossia la naturalizzazione dei cittadini stranieri a fronte di un periodo di residenza stabile nel Paese ospitante. Sul tema, il professor Harald Bauder dell’Università di Toronto ha esplorato due soluzioni adottate in Canada e in Germania, che consento ai lavoratori migranti di non perdere la cittadinanza d’origine, bensì acquisire permessi temporanei o permanenti godendo dei diritti di quella che egli chiama “cittadinanza informale”, che include diritti sociali ed economici ma non tutto il ventaglio di diritti propri di coloro che “appartengono” alla nazione, e dunque godono di cittadinanza formale. Tuttavia, secondo Bauder, nonostante queste politiche i lavoratori migranti permangono in uno stato di vulnerabilità, in quanto ottengono diritti non proporzionati, in difetto, a quelli dei lavoratori che godono di piena cittadinanza.

Alcuni spunti di riflessione

Ignorare la regolamentarizzazione dei lavoratori migranti favorisce l’emergere di una gerarchia legale tra cittadini, che non risolve la vulnerabilità dei migranti stagionali o privi di capitale, esposti a pratiche illegali e alienazione culturale. Forme ibride di cittadinanza sono possibili, ma spesso gli stati ospitanti mettono da parte le riforme sociali necessarie in favore di ritorni economici o politici maggiori. Una possibile soluzione potrebbe essere la spinta alla regolamentazione secondo un approccio bottom-up, dai cittadini alle istituzioni, ma la mobilitazione sociale in paesi del Golfo arabo è scoraggiata e spesso osteggiata vista l’assenza di molti diritti politici e civili per gli stessi cittadini regolari e nativi.

 

Per approfondire:

Bauder H., (2008) Citizenship as Capital: The Distinction of Migrant Labor, Alternatives 33 (3), 315–333

Bauder H., (2014) Domicile citizenship, human mobility and territoriality, Progress in Human Geography, Vol. 38(1) 91–106, DOI: 10.1177/0309132513502281

Sater J., (2014) Citizenship and migration in Arab Gulf monarchies, Citizenship Studies, 18:3-4, 292-302, DOI: 10.1080/13621025.2013.820394