Penna, piuma, gallina: Daniele Rielli

 

Quit the Doner è uno pseudonimo che deve la propria origine alla passione, potenzialmente esiziale, che Daniele Rielli scopre di avere a Berlino per il kebab: questo lo racconta a Trento Venerdì scorso, in occasione della presentazione del suo primo romanzo, “Lascia stare la gallina”, perchè per nostra fortuna il Rielli ha poi deciso di quit per davvero il Doner e di investire su un'altra sua passione: la scrittura.

 

Ai pochi che ancora non sanno chi sia Daniele Rielli consiglio di digitare www.quitthedoner.com: il suo è uno dei siti autoriali più frequentati d'Italia (pare se la giochi con Zerocalcare, ma è uno sport diverso). Il rischio che si corre ad informarsi su di lui e sulla sua carriera è quello rimanere un po' interdetti da quantità, varietà e caratura degli articoli e dei reportage di Daniele, nato nel 1982 a Bolzano. Da Vice all'Internazionale, da Linkiesta a Repubblica: negli anni Quit the Doner ha apposto la sua firma presso testate molto diverse tra loro, ma di indubbia rilevanza. Se fosse mai possibile trovare un elemento comune a fronte della natura tanto miscellanea delle sue inchieste, dalla più seria alla più scanzonata, quel quid forse sta proprio nell'intenzionalità dello scrivere di Quit: intuire, andare a verificare in prima persona e riportare al prossimo suo con semplicità e franchezza, un narrare sentito come una necessità umana che – in virtù della sua inevitabilità – non conosce limiti di tema, di registro e di battute.

 

Venerdì scorso, sette di sera, pioviggina sulla Trento in fermento per l'inizio delle feste Vigiliane. L'atmosfera che si crea all'interno della Bookique, sul fianco dell'imponente castello, è informale ed intima, quasi protetta: Daniele ha raccolti intorno a sé amici, colleghi e perfetti sconosciuti che forse, come me, per la prima volta stanno associando il suo volto a ciò che ha scritto in questi anni. Vige un silenzio rilassato, un'attenzione curiosa e felicemente costante. Rielli, introdotto da Stefano Voltolini, presenta a questo pubblico “Lascia stare la gallina” (uscito per Bompiani il mese scorso) con l'affetto di chi per tre anni si è speso metodicamente, quotidianamente per la nascita di ognuna di queste seicento e più pagine, ma che è ora consapevole di un ineludibile stato di cose: è giunto il momento di lasciare che quella storia intraprenda un viaggio autonomo e indipendente da chi l'ha scritta, nell'ignoto mondo dei lettori. Dagli esordi più underground a oggi, attraverso una carrellata di aneddoti sempre tanto umani, per questo altrettanto comici, Rielli racconta sé stesso e le avventure, varie e imprevedibili, che hanno costellato la sua carriera di scrittore e di conseguenza la sua vita. Tanti gli argomenti di cui racconta, birretta alla mano e sorrisetto autoironico quasi a suo stilema: dal poker nei Balcani, alla Venezia del Redentore, dall'uso della prima persona testimoniale nella scrittura giornalistica a quello degli algoritmi nella narrativa del web. Poi ovviamente di questo nuovo romanzo, ambientato nella Puglia della famiglia paterna: nel rivelare i retroscena, divertenti e a tratti perturbanti, di ciò che scrive, qualsiasi cosa scriva, Daniele Rielli sta condividendo con chi lo ascolta un resoconto di ciò che dalla vita ha imparato. Perché ogni circostanza, anche la più assurda, in cui si è ritrovato inseguendo il filo logico dei suoi pensieri che nella sua mente stanno già diventando un articolo, gli ha insegnato tanto – in certi casi forse troppo – , indipendentemente dalla specificità di ciò che deve scrivere: di questo è grato più di ogni altra cosa. Poi legge l'antefatto del romanzo e, ai fini di mera di indagine di mercato, va detto: funziona, funziona eccome. Sentire la sincera emozione nella voce di Daniele nel leggere il suo romanzo e ridere, insieme a noi tutti, delle sue stesse battute, dischiude in pochi minuti il fascino del vorticoso plot narrativo che ha come sfondo il Salento e allo stesso tempo fa sì che le copie del romanzo sul tavolino si esauriscano in fretta. “A computer scrivo meglio che a mano” una delle dediche, giusto per dare l'idea dell'urbanitas del personaggio con il quale ho l'onore di poter parlare – prima che si sia bevuto troppo – e dal quale, come da un fratello maggiore, sto per ricevere una lezione umanamente esemplare sul giornalismo, in Italia, oggi. Chissà se si accorge del mio reverenziale timore mentre inizio da

 

  1. Giornalisti si nasce? Ti ricordi la prima volta in cui hai sentito di poterti definire giornalista di mestiere?

Questa intervista parte da qui, o meglio lo farebbe, se non fosse che Daniele Rielli non ricorda un momento preciso in cui si è sentito di definirsi così: semplicemente ha sempre scritto e pubblicare un romanzo oggi non lo fa sentire per questo più arrivato di quanto non si sentisse quando l'anno scorso per Indiana è uscito “Quitaly”, antologia dei suoi reportage sulla realtà italiana, anche quella più scomoda. Va cauto Daniele nel parlare di sé e del proprio lavoro, sminuendo a tratti, sembrerebbe, la portata del suo tratto e della sua figura su scala italiana. Mi chiedo se sia consapevole, mentre parliamo sui gradoni del giardino e assistiamo al concerto del suo amico Anansi, che nonostante non gli sia necessaria, ha una penna stretta in mano: una deformazione professionale che diventa naturale appendice fisica? A mia volta ho una penna in mano, ma la mano di Daniele Rielli non è macchiata dai segni dei rossetti che fino a pochi minuti fa ho venduto come commessa part time, con l'ambizione di vivere a mia volta di scrittura full time: una realtà con cui siamo in tanti a scendere a compromessi. Eppure Quit the Doner, a sua volta, ha fatto i lavori più disparati prima di campare di ciò che fa, prima di poter affermare di essere uno delle forse cinque persone che in Italia possono dire di vivere di giornalismo freelance. E questo a chi scrive, come a migliaia di altri nel nostro Paese, dona una scintilla di pura speranza.

 

  1. Scrivere su internet: gli algoritmi riusciranno a riprodurre la comicità umana?

Chissà quante volte Daniele, blogger degli esordi, sarà stato interrogato su questo punto. Infatti, portato a parlare di CMC – computer mediated communication, come si studia in linguistica – dà, forse inconsciamente, lievi accenni di insofferenza e taglia corto: sì, sta già avvenendo e avverrà sempre di più che intelligenze artificiali sostituiscano quelle umane nella scrittura di articoli sul web, e sì, anche l'umorismo, in quanto facoltà dell'intelletto, sarà riprodotto da generatori in base algoritmica.

Passiamo a parlare di una cifra stilistica del suo scrivere reportage, la lunghezza dell'articolo: qual è il numero di caratteri adatto a trovare un compromesso fra la soglia di attenzione del lettore medio e il desiderio di espressione nel dettaglio di chi narra? Hai detto niente, tanto vale scoperchiare il vaso di Pandora: chi scrive sul web convive con la regola aurea del “Mai più di 2500 battute”, ma oggi sarà davvero così importante? A chi chiederlo se non a lui. Per entrare in argomento gli porto ad esempio il recente articolo di Nicola Lagioia su Internazionale (“Non è vero che tutte le storie sono state raccontate”, più di 17.000 battute), e Daniele a giusta ragione ribatte portandomi ad esempio il proprio articolo, uscito lo stesso giorno, sempre su Internazionale: “Vita da pokerista”, un reportage questo – dettagliato, didascalico, non per questo meno fluente – sul gioco del poker, che lo ha visto impegnato per più di un anno di ricerca e che si concretizza in più di 112.000 battute. C'è davvero una lunghezza massima? Quanto conta realmente il numero di cartelle nel giornalismo di oggi? Di tali tecnicismi lo induco a parlare, vedendo in lui con tanta stima uno dei paladini dello sdoganamento della prolissità nel giornalismo 3.0. Ebbene, rullo di tamburi: è 8384.000 battute la risposta diplomatica alla lunghezza massima di un articolo che Quit the Doner si sente di dare. Mi spiega che il reportage centrale del New Yorker infatti può arrivare fino a circa 80.000 battute, generalmente considerate quindi il limite massimo. Ma subito mi ammonisce, perché il punto è un altro e non è così scontato se Daniele lo ribadisce così chiaramente : la debacle sul numero dei caratteri nella scrittura digitale diventa una sterile serie di sofismi se poi non si hanno i contenuti a fondamento. E quindi

 

  1. Di cosa si deve scrivere oggi? Quali sono le informazioni che il lettore desidera davvero ricevere dalla stampa?

Del criterio di notiziabilità, in particolare in Italia, si può discutere diffusamente con Daniele, che mostra padronanza dell'argomento e anche un saggio e misurato gusto per il rifiuto di ogni generalizzazione: sarebbe facile dalla sua posizione affermare che la ricerca dello scoop, del titolone da palinsesto è uno stilema solo italiano, ma non lo fa. Esiste certamente secondo Rielli una specificità nazionale, se si guarda ad alcune caratteristiche nel dettaglio: <<Ad esempioracconta – il giornalismo italiano storicamente non ha la distinzione tra stampa “alta” e tabloid, che c’è in altri paesi, e questo porta il meccanismo di selezione di ciò che è considerato news da un lato ad un ossessione tutta nazionale per la politica, dall’altro al proliferare di agende che tematicamente assomigliano sempre più a quelle dei tabloid, che poi hanno nei fatti uno svolgimento mid-cult: un modello che guarda, in genere, ad un lettore ideale decisamente attempato, considerato l’unico lettore possibile. Ovviamente è un’impostazione che tacitamente accetta la prospettiva dell’estinzione della stampa. All’estero non sono perfetti ma hanno problemi diversi, in generale comunque, specie nei paesi anglosassoni, il giornalismo risulta più rigoroso e sperimentale>>

Uno spunto di riflessione che Daniele introduce, in virtù della sua esperienza, ormai pluriennale e assodata, è che in questo momento ciò che forse davvero rende un giornalista migliore di un altro è la capacità di selezione più che di sintesi: in una società frammentaria e sovraccarica di stimoli è necessario essere consapevoli di dover ridurre – per scopi di utilità e buona informazione – la mole di ciò che realmente si vorrebbe scrivere, alla luce della responsabilità che chi scrive sa di avere nei confronti di chi legge. << Bisogna avere l'onesta intellettuale di ricercare l'inaspettato, o il lato nascosto di realtà che già stanno sotto i riflettori tutti i giorni, e poi scriverne: affinare la capacità di raccontare storie che oggi non siano considerate news, ma le così dette “notizie fredde”, approfondimenti su temi vari della nostra società, che richiedono tempo di ricerca, di riflessione e di stesura: questo comporta ovviamente la prerogativa della scelta.>> Un compito non semplice per chi, spinto dall'ardore giovanile ed erede del Realismo isterico teorizzato da James Wood, vorrebbe dire tutto, scrivere di tutto: coglie completamente nel giusto Quit the Doner, anche il filo dei miei pensieri, perché questa domanda – per una serie di associazioni indebite – me la ha ispirata proprio lui, durante la presentazione, con i bonari e simpatici sfottò nei confronti del cappellino del suo amico rapper Ares Adami, di cui è appena uscito il nuovo album, Ritagli. Assistere allo scambio di battute di questi due soci, mi porta a pensare al mio di soci, Riccardo Vignola, conduttore di Rewind: poche ore prima mi contatta per chiedermi se ho letto su Rapburger dell' arresto di Noyz Narcos, per sapere se so invece – lui si è informato, ha fatto bene i compiti a casa – che le cose sono andate diversamente da come vengono spacciate sui social network, per domandarmi infine se in questo paese la gente continuerà sempre a fidarsi di ciò che legge superficialmente, senza approfondire mai. Mi sta facendo un esempio minore , uno tra i tanti, che però mi sento di riportare a Daniele mentre inoltro a lui queste domande, senza pretendere risposta, come si può? In sottofondo alla nota vocale di Riccardo, si sentono i rumori della stazione di Milano, perché lì si trova, di sua spontanea volontà, per vedere con i suoi occhi un esempio maggiore di probabile disinformazione – o mala informazione – che riempie le pagine dei nostri quotidiani, cartacei o digitali, in questi giorni: i rifugiati politici che in Italia non vogliono rimanere e che stanno tentando con ogni mezzo di lasciare il nostro Paese per altri stati europei. Anche di questo parlo con Quit the Doner, perché anche di questo si è occupato: è stato alla stazione di Bolzano, è stato a quella del Brennero per sapere come stanno veramente le cose e raccontarle al mondo. Lo farà nei prossimi giorni sulle pagine di Repubblica, già, di Repubblica

 

  1. Hai avvertito una discrepanza nel passare a scrivere per testate come Vice a quelle nazionali come Repubblica?

Mi torna alla mente il mio primo lavoro, in un negozietto di streetware della bassa emiliana e le copie Vice appoggiate sulla cassa: la Bibbia, allora, del mondo underground che faceva tendenza, anche quando trash. Daniele scriveva per loro, oggi pubblica romanzi e i suoi reportage sono commissionati dalle testate giornalistiche i cui nomi evocano l'idea massima di istituzionalità e serietà in Italia, ma la risposta non è così ovvia: << I rapporti con una testata non sono mai lineari e monodirezionali, la trattativa autore-editor esiste sempre a Vice come a Repubblica, certe volte anzi più a Vice che a Repubblica. Il punto è riuscire a portare a casa un risultato il più simile possibile a quello che avevi in testa, senza superare mai certi limiti oltre i quali il pezzo non sarebbe più tuo. Questo non solo per una mera questione di soddisfazione personale, ma anche perché la specificità autoriale è l’unico modo per sopravvivere in questo mestiere . La qualità poi, quella prescinde dallo stile. Nessun giornale comunque ti dirà mai “No, grazie, non vogliamo la qualità”, al massimo quello che ti dirà è “Ci costi troppo con tutte le ricerche che fai!” >> Essere un bravo giornalista narrativo freelance per lui significa portare a termine un'inchiesta fatta bene, mirando alla qualità, indipendentemente dalla destinazione di pubblicazione. Non è retorica, sta dicendo la verità e lo conferma il fatto che la stessa penna impegnata, che ha scritto il celeberrimo “Cinque buone ragioni per non votare Grillo” è la stessa – si percepisce chiaramente – che nell'antefatto del romanzo “Lascia stare la gallina” è altrettanto impegnata a raccontare di sesso sbagliato e di bong Roor, dimostrando l'integrità di chi scrive, la sua fiducia nel poter analizzare e raccontare la contemporaneità col registro che più sente proprio. In fondo Daniele Rielli è sempre Daniele Rielli, anche se per anni si è firmato in altro modo, ma infatti

 

  1. Come è stato passare al proprio nome vero? Un trauma?

No, per Daniele lasciare lo pseudonimo di Quit the Doner non è stato così straniante come pensava, anzi, è stato un cambiamento che ha vissuto in modo piuttosto leggero, graduale, quasi naturale. Pubblicare un romanzo col proprio nome significa uscire da dietro una tastiera, assumere un volto e dei connotati fisici precisi, più di quelli dell'icona autoriale dell'Internazionale, ma la carriera di scrittore di Quit è stata tanta varia quanto trasparentemente umana da portarlo – a meritata ragione – ad essere, già prima di questa ultima fatica letteraria, seguito e conosciuto da molti, catturati dal suo filtro di indagine della realtà e al modo di metterlo in parole, nello stile unico che lo contraddistingue: assumere un nome o un altro non ha veramente peso, in fondo. Trattare argomenti così disparati – l'elenco dei titoli degli articoli del suo sito va davvero visto in prima persona per rendersi conto di che tipo di assortimento si sta parlando – evidentemente gli ha insegnato negli anni a trovare le coordinate di uno stile le cui cifre, come un fiume carsico, attraversano ogni suo scritto e creano tanti affezionati.

 

  1. Guardami negli occhi e dimmi che è possibile.

Quanto è vero che ha scritto di tutto, così è vero che con Daniele si può parlare di tutto, ma le interviste devono naturalmente volgere ad un termine, purtroppo, e gli aperitivi cominciare. Per questo è al Daniele in quanto esempio di “quello che ce l'ha fatta” che rivolgo questa domanda conclusiva – sei ne ho promesse e sei mantengo – e la risposta è al grado umano massimo: quando ha cominciato a scrivere, al Daniele Rielli di allora, un Quit the Doner in fieri, è stato detto che oggi non si può più fare del giornalismo un lavoro. Una frase tristemente trita e ritrita: eppure lui ce l'ha fatta, e quindi? Quindi Daniele Rielli – oltre uno scambio umano tanto ricco quanto simpatico – Venerdì 19 Giugno alla Bookique di Trento mi saluta lasciandomi un libro che sicuramente leggerò, lasciandomi la speranza che ne scriva – come dice che forse farà – uno su Bologna, ma soprattutto lasciandomi una grande lezione.

 

 

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Lucia Rosanna Gambuzzi