La rifrazione del silenzio

Curon/Graun immerge gli spettatori nel silenzio di un villaggio scomparso

Una rappresentazione teatrale silente e all’insegna dell’iconismo ha accolto, martedì 4 aprile, il pubblico del teatro Zandonai di Rovereto. Ma il silenzio di un’opera non la rende automaticamente muta. Attraverso la sola voce dell’orchestra “Haydn” di Bolzano e Trento, la performance-installazione Curon/Graun – ideata dal regista roveretano Filippo Andreatta per OHT – Office for a Human Theatre – racconta la vicenda del paese di Curon, Graun in tedesco. La narrazione, intrecciata dall’esecuzione di due pezzi di Arvo Pärt, Fratres in tre versioni e Cantus in memory of Benjamin Britten – di cui la campana simboleggia il campanile, l’unico edificio rimasto del paese grazie all’opposizione all’abbattimento da parte delle Belle Arti –, non vuole attori in scena, giocando – alla maniera di Beckett – con il concetto di “atto senza parola” e del delicato rapporto tra azione vocale e azione fisica.

E la parola, difatti, è presente solamente nella prima delle tre parti dello spettacolo: didascalica, a schermo, mai verbalmente enunciata. È solo la musica a parlare, in Curon/Graun. Questa forzatura nei confronti dello spettatore, che è obbligato a leggere a mente le frasi che descrivono, in modo dettagliato, la vicenda del paese della Val Venosta sino allo sfollamento della popolazione e alla distruzione dell’abitato nel 1950, ci costringe a immergerci nel silenzio che circonda il campanile, in superficie e al di sotto di essa. L’acqua, infatti, è un’altra grande protagonista dello spettacolo, e si fa spazio nella seconda parte: una teca, contenente un modellino del campanile, viene riempita in un crescendo d’intensità. Dapprima, l’acqua cade solamente in piccole gocce; poi, travolge completamente il contenitore, colmandolo fino all’orlo. Anche la musica si stratifica, acquisendo timbri più cupi. La terza parte, in cui risuona la campana di Cantus, ci mostra in video il viaggio effettuato fino a Curon, concentrandosi sui verticalismi delle colonne di cemento e acciaio della diga e creando con esse dei parallelismi contrastanti con le altezze del campanile. Di nuovo, nessun commento viene pronunciato a sostegno di ciò che vediamo, mentre l’acqua prende di nuovo la parola. Nella terza ed ultima parte dello spettacolo il telo, su cui le didascalie erano proiettate, cade a terra come travolto da un’onda, in mezzo ad una nebbia che potrebbe ricordare della spuma o del vapore. L’opera si conclude con una riproduzione del campanile – frutto del set design di Paola Villani – presente sul palco, come se fosse esso stesso l’attore protagonista. La struttura è ora immersa completamente dalle onde del lago, ricreate egregiamente attraverso il light design di William Trentini. Lo spettatore è nell’acqua assieme alla struttura campanaria, sino alla punta del tetto. La scena si chiude nell’oscurità del fondale scuro e melmoso.

Riassumendo, dunque, in Curon/Graun a parlare sono i simboli visivi e sonori, mentre l’enunciazione umana è totalmente annullata (le persone fisiche non sono state previste nemmeno nei video). Questa assenza persistente è icona di un paese non solo disabitato, ma ormai inesistente anche nelle strutture, simbolo di ciò che gli esseri umani sanno fare meglio: insediarsi e trasformare il luogo circostante. E questa trasformazione può essere una lama a doppio taglio, che nel caso di Curon ha tranciato ogni contatto con la storia del luogo e coloro che l’hanno abitata. Così, il pubblico si trova a condividere il silenzio di un paese ridotto forzatamente alla mutezza, affogando in acque troppo alte per irrigare dei campi, un tempo, rigogliosi.

 

Tout court