Il pubblico della poesia #17: Sonia Caporossi

Una riflessione collettiva. Diciassettesima puntata

di Adriano Cataldo

La poesia fa male

Nanni Balestrini

 

Per costruire questa piccola rubrica ci siamo posti una domanda: quali sono i confini della poesia?

In un mondo in cui il richiamo ai confini è spesso connotato all’esclusione, proponiamo all’opposto un ragionamento volto a ciò che accomuna le diverse realtà che operano nell’universo poetico.

Non è nostro obiettivo stabilire una definizione di poesia, vogliamo invece parlare del suo pubblico. Il punto di partenza è un testo molto famoso del poeta Nanni Balestrini. In questo testo viene evidenziata l’esistenza di un “patto” tra chi fa poesia e chi ne fruisce. In questa prospettiva, risulta di fondamentale importanza capire i meccanismi di questa relazione pubblico-poeta, perché può dire molto sul fare poesia.

Come altre forme d’arte, l’universo poetico vive a nostro avviso una forte lacerazione.

Da un lato, si vede un’apertura molto forte al fare poesia, veicolata parzialmente dai nuovi media. Un’apertura orizzontale, che risponde alle necessità che hanno gli individui di esprimersi e di trovare parole per comprendere il proprio tempo. Un’urgenza che spesso non tiene conto della qualità del testo poetico.

Dall’altro lato, esiste un forte richiamo alla qualità del testo poetico, un’apertura verticale, che secondo alcuni dovrebbe rappresentare il confine per stabilire cosa sia davvero la poesia, per distinguerla dalla scrittura non-poetica, oppure da quella di poco pregio.

In base ai due diversi gradi di apertura, si possono identificare dal nostro punto di vista due tipi di poesia: una popolare e una laureata. Si tratta di due categorie analitiche, esemplificative, che servono per orientarsi, ma che nella realtà sono più sfumate.

Partendo da questo scenario, intervisteremo diversi esponenti del mondo poetico (poeti e poetesse, organizzatori e organizzatrici di eventi, analisti e analiste) e ragioneremo sulle possibili differenze tra poesia popolare e laureata.

Dopo Cristiano Poletti, la nostra diciassettesima ospite è Sonia Caporossi (Tivoli, 1973), docente, musicista, musicologa, scrittrice, poetessa, critico letterario, artista digitale, si occupa di estetica filosofica e filosofia del linguaggio. Con il gruppo di art-psychedelic rock Void Generator ha all’attivo diversi album. Suoi contributi saggistici, narrativi e poetici sono apparsi su blog e riviste nazionali e internazionali. Dirige per Marco Saya Edizioni la collana di classici italiani e stranieri La Costante Di Fidia. È giurata del Premio Letterario Il Giardino di Babuk – Proust en Italie e del Concorso Letterario legato al festival di Bologna in Lettere. Dirige inoltre i blog Critica Impura, Poesia Ultracontemporanea, disartrofonie, collabora alla rivista online Poesia del Nostro Tempo e conduce su NorthStar WebRadio la trasmissione Moonstone. I suoi ultimi libri sono "Taccuino dell'urlo" (Marco Saya Edizioni 2020) e "Le nostre (de)posizioni" (Bonanno Editore 2020, con Enzo Campi). Vive e lavora nei pressi di Roma.

(Sonia Caporossi, foto di Dino Ignani)

Cosa spiega il successo della poesia popolare, in termini di vendite e copertura mediatica, nonostante la scarsa qualità dei testi?

Per rispondere alle tue domande mi avvalgo di quanto ho esposto all’interno del mio Da che verso stai? Indagine sulle scritture che vanno e non vanno a capo in Italia, oggi (Marco Saya 2017), libro di critica sociologica del fatto poetico in cui ho già dibattuto questi temi e problemi fino all’osso. Scrivevo lì che «anche l’arte e la letteratura in senso esteso non eccettuano dal subire un accorciamento dello svolgimento temporale delle cose, rimanendone sostanzialmente vittime» (p. 15). La poesia ai tempi di Internet è fagocitata dal grado zero della temporalità, che diventa, per parafrasare a mio vantaggio Roland Barthes, a sua volta amodale, elementarmente rabbassata alle sue funzioni basiche, indirizzata verso uno «stato neutro o inerte della forma». In questo tempo raccorciato e fluidificato non utopico bensì reale, secondo una metafora matematica che amo usare spesso nella mia pratica critica, la poesia si ritrova coacta all’interno di un insieme di Cantor in cui la polvere dell’indistinzione la avvolge e la sovrasta. Se la temporalità a causa dei social media e di internet è raccorciata e fluidificata lo spazio è con-fuso, al punto che all’interno dell’insieme logico del poetico in quanto tale non si sa più nemmeno se sia realmente presente qualcosa. Se al mondo ci fosse una sola cosa, allora non ci sarebbe nessuna cosa. Laddove nessuno è poeta, tutti sono poeti, ed è vera la reciproca: laddove tutti sono poeti, non lo è nessuno. In questa situazione, il poeta è un sedicente, svia l’attenzione dal testo a sé (ciò manifesta almeno due vulnera profondi a corollario: il vulnus della critica letteraria, sedicente essa stessa, che non guida più il lettore a capire chi ci fa e chi ci è, e il vulnus dell’educazione estetica dei lettori, di cui dirò più avanti). A ciò si aggiunge il fatto che la poesia in quanto tale, come ogni forma d’arte, in realtà non è serialmente mercificabile: probabilmente, ci sbagliamo a volte nel definire poesia ciò che non lo è. Un po’ come quando al supermercato, se siamo distratti, nello scaffale confondiamo la carta igienica con quella assorbente.

Esiste qualche esempio di buona poesia capace di raggiungere un pubblico più ampio?

Il problema è riuscire non tanto a definire, quanto a cogliere esteticamente ciò che chiamiamo un po’ istintivamente e ingenuamente “buona poesia”. Non esistono infatti definizioni normative di tipo oggettivo che ci dicano cosa è bello e cosa non lo è, si tratta di un sentimento estetico, di un “cogliere di colpo” (Wittgenstein), di una dimensione “universalmente soggettiva” (una delle definizioni più complicate e paradossali della filosofia!) in cui il sentire, kantianamente, trova l’accordo con quello dell’altro in un giudizio di gusto che si ponga a “ponte tra intelletto e ragione”. Scrivevo più avanti nel medesimo saggio: «un tempo, quando la scansione cronologica era meno breve e rabberciata di questa, rimaneva alla memoria soltanto ciò che, in qualche modo, deteneva un valore estetico autoevidente». Solo i grandi, di fatto, lasciano traccia, e questa è comunque una garanzia. Si tratta di un procedimento di sfrondamento autotelico e autodeterminante di tipo storico, che nel qui-ed-ora del tempo rabberciato stenta a rendersi evidente perché è proprio la storia in quanto proce-duralità e dia-cronia a non poter essere colta ermeneuticamente nel momento del suo fieri. Continuavo dicendo che «adesso invece, la capacità di ricognizione del valore letterario di un fatto d’arte sta sparendo, o forse sta solo rimanendo nella nicchia o nell’ombra anche ciò che valore lo ha da vendere, contemporaneamente concedendo la magra consolazione dello sfogo, magari, a qualche sporadica e sparuta emersione dal sommerso di un’anomalia, immediatamente rificcata a forza sotto la superficie» (p.16). Di buona poesia, in senso lato, ce n’è tanta, come anche di pessima: il punto è allora la nostra capacità di discernimento. Funzione fondamentale, in questo senso, dovrebbe svolgerla la scuola, attuando un’appassionata educazione estetica dei giovani lettori, missione impervia giacché scrivevo ancora nel mio saggio che «non si può insegnare a “cogliere di colpo”, o “cogli di colpo” o non cogli; come insegnante puoi tentare solo una maieutica abbozzata». A differenza dei contenuti nozionistici, facilmente trasmissibili, l’educazione estetica è una sfida immane, perché si fonda giocoforza su una predisposizione praticamente innata, una sensibilità precedente, aurorale e primigenia, che negli individui purtroppo, come gli insegnanti, gli psicologi, gli artisti e i genitori sanno, alla base del carattere o c’è o non c’è. «Ecco perché la poesia è in realtà per pochi […]: non “colgono di colpo” tutti, infatti, perché non tutti, nostro malgrado, vengono toccati dalla bellezza o dall’intuizione. È questo il male profondo della società in cui giocoforza viviamo, quello da cui, a ben vedere, sorgono tutti gli altri, se vogliamo dare credito al nesso inscindibile fra estetica ed etica; ed è questo ciò su cui bisogna lavorare quotidianamente per costruire la bellezza e l’intuizione come forme di sensibilità del domani» (pp. 70-71). Ecco, dovremmo porci innanzitutto questo ordine di problemi, prima di farci ulteriori domande sulla trasmissibilità o meno della buona poesia al pubblico “ampio”.

 

La "poesia laureata" può avere un impatto sociale?

Riconsideriamo innanzitutto le categorie che vengono utilizzate in questa stessa intervista come postulati e vediamo se assiomaticamente siano ammissibili o meno. Come avrai capito, per me non hanno molto senso. La poesia popolare, come ho cercato di spiegare prima, di fatto non esiste, ma non nel senso che possa essere chiamata poesia solo quella che definisci “laureata” (non c’è il minimo snobismo in quanto affermo), bensì nel senso che le categorie in genere lasciano il tempo che trovano: la poesia, in ogni senso, non è né popolare né laureata, è una. O c’è o non c’è. Quando c’è, la definizione, l’etichetta, il categorema dileguano. Mi rendo conto che il ragionamento può sembrare un po’ parmenideo, ma non è affatto un procedimento autoescludente di tipo crociano; si tratta in realtà di un concetto molto semplice: occorre tornare a concepire una sorta di rivoluzione copernicana. In poesia non è determinante tutto ciò che gira intorno al poetico in quanto tale (il medium, il personaggio del poeta, il pubblico, il contesto ecc. vengono dopo sia in senso cronologico che logico). Il principio fondamentale è infatti il seguente: tutto sta nel testo. E un testo o è poesia o non lo è. La difficoltà sta, per il pubblico diseducato esteticamente, nel distinguere la poesia dalla mera testimonianza della produzione artistica e culturale del tempo di volta in volta in atto. E di questa produzione non è dato qui sapere se sia buona o cattiva, perché non se ne può pontificare senza leggere: il valore di un testo lo si determina criticamente (con gli strumenti della critica testuale e dell’estetica filosofica) di volta in volta davanti al testo in questione e non altrimenti. E soprattutto, solo dopo un certo lasso di tempo che ne garantisca la giusta presa di distanza analitica. Detto questo, la poesia (che è una, senza aggettivi), in quanto essenzialmente comunicazione può e deve certo avere un impatto sociale, ma riesce ad averlo solo se prima ancora ce l’ha nel chiuso delle coscienze passando-attraverso il canale dell’aisthesis. Altrimenti, senza il “cogliere di colpo”, non comunica non un bel nulla, nemmeno il nulla. Di certo ha un grosso impatto sociale la produzione testuale che testimonia la condizione dei tempi della quale si diceva poco fa e di cui, a differenza della poesia in quanto tale (che tautologicamente o è poesia, e quindi di valore, o non lo è), si può dire se sia bella o brutta, buona o cattiva, ma ciò non è determinante per la sua funzione d’uso: essa infatti è testimonianza “di”, si riempie di volta in volta di significato ad indicare chi siamo e dove stiamo andando, non necessariamente detenendo un valore estetico-artistico. In questo senso, c’è sempre stata, c’è e ci sarà. Casomai, ecco, se non chiamassimo programmaticamente poesia la mera testimonianza testuale dei tempi, a ben vedere, avremmo risolto un po’ di problemi categoriali e saremmo pronti per la fase due dell’esercizio critico-estetico: cominciare davvero a leggere, a giudicare esteticamente e, di conseguenza, a scegliere.

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