Il pubblico della poesia #16: Cristiano Poletti

Una riflessione collettiva. Sedicesima puntata

di Adriano Cataldo

 

La poesia fa male

Nanni Balestrini

 

Per costruire questa piccola rubrica ci siamo posti una domanda: quali sono i confini della poesia?

In un mondo in cui il richiamo ai confini è spesso connotato all’esclusione, proponiamo all’opposto un ragionamento volto a ciò che possa accomunare le diverse realtà che operano nell’universo poetico italiano.

Non è nostro obiettivo stabilire una definizione di poesia, vogliamo invece parlare del suo pubblico. Il punto di partenza è un testo molto famoso del poeta Nanni Balestrini. In questo testo viene evidenziata l’esistenza di un “patto” tra chi fa poesia e chi ne fruisce. In questa prospettiva, risulta di fondamentale importanza capire i meccanismi di questa relazione pubblico-poeta, perché può dire molto sul fare poesia.

Come altre forme d’arte, l’universo poetico vive a nostro avviso una forte lacerazione.

Da un lato, si vede un’apertura molto forte al fare poesia, veicolata parzialmente dai nuovi media. Un’apertura orizzontale, che risponde alle necessità che hanno gli individui di esprimersi e di trovare parole per comprendere il proprio tempo. Un’urgenza che spesso non tiene conto della qualità del testo poetico.

Dall’altro lato, esiste un forte richiamo alla qualità del testo poetico, un’apertura verticale, che secondo alcuni dovrebbe rappresentare il confine per stabilire cosa sia davvero la poesia, per distinguerla dalla scrittura non-poetica, oppure da quella di poco pregio.

In base ai due diversi gradi di apertura, si possono identificare dal nostro punto di vista due tipi di poesia: una popolare e una laureata. Si tratta di due categorie analitiche, esemplificative, che servono per orientarsi, ma che nella realtà sono più sfumate.

Partendo da questo scenario, intervisteremo diversi esponenti del mondo poetico (poeti e poetesse, organizzatori e organizzatrici di eventi, critici e critiche) e ragioneremo sulle possibili differenze tra poesia popolare e laureata.

Dopo Lorenzo Bartolini, il nostro sedicesimo ospite è Cristiano Poletti (Treviglio, 1976), autore di Porta a ognuno (L’arcolaio, 2012), delle prose saggistiche raccolte in dei poeti (Carteggi Letterari, 2019), del libro-DVD Libellula gentile, con il documentario di Francesco Ferri sul lavoro di Fabio Pusterla (Marcos y Marcos, 2019), di Temporali (Marcos y Marcos, 2019). Dal 2007 al 2017 ha diretto Trevigliopoesia, festival di poesia e videopoesia. È redattore di Poetarum Silva. Lavora all’Università di Bergamo.

(Cristiano Poletti)

Cosa spiega il successo della poesia popolare, in termini di vendite e copertura mediatica, nonostante la scarsa qualità dei testi?

Vorrei dire prima di tutto una cosa: ritengo la poesia, per sua stessa vocazione, “popolare”. Ogni poesia, e tutta la poesia, vorrebbe esserlo. Con “popolare” intendo che chi scrive poesia vorrebbe raggiungere il cuore dei più (e “popolare” così, qui inteso come verbo, la propria solitudine). È nella natura stessa della poesia il desiderio di essere nel cuore di molti, non c’è dubbio.

Ora, non c’è autentica poesia che non sia pensante e che non sia necessaria. Pensante, ma affettiva; anzi, pensante “e” affettiva. Mutuo da Cacciari queste riflessioni, e concordo con lui: si tratta di un’affettività del pensiero, in fondo, e a differenza della filosofia, la poesia può fare soltanto una cosa, mostrare se stessa. È una cosa nuda, sulla pagina e basta. È un’arte e dunque deve “servire”. C’è un bellissimo documentario su Tarkovskij, Il cinema come preghiera, in cui il regista spiega bene questa necessità di rispondere da parte dell’arte al dovere primario dell’uomo, delle relazioni umane: appunto, servire.

Quindi “cosa” spiega il successo? A parte che nel caso della poesia ho qualche dubbio sull’opportunità di usare la parola “successo”, ma penso che una maggiore diffusione di una poesia sia possibile se appunto ci “serve”, cioè se sa rispondere al bisogno di “poetico”, che è semplicemente nella vita. È un bisogno spirituale essenzialmente, e vasto senz’altro; è il distillato che resta, di noi. Il che non concerne ovviamente soltanto la poesia, e se qualche confusione si crea in proposito, ossia questa risposta la può dare la musica, il cinema ecc., la poesia per eccellenza deve poter rispondere in primis, deve saperlo fare, a suo modo.

Rispetto alla presunta (spesso oggettiva) scarsa qualità dei testi, penso sempre a un passaggio del discorso che Montale tenne in occasione della consegna del Nobel: «esistono in coabitazione due poesie, una delle quali è di consumo immediato e muore appena è espressa, mentre l’altra può dormire i suoi sonni tranquilla».

Esiste qualche esempio di buona poesia capace di raggiungere un pubblico più ampio?

Come prima, anche qui ho qualche dubbio sulla parola “pubblico”. Nel caso della poesia forse sarebbe meglio parlare di incontri, tra chi scrive e alcuni destinatari potenziali: l’incontro è tutto, la dimensione relazionale è quella intima e personale tra chi scrive e un destinatario, che magari fino a quel momento giustamente si ignorava che potesse esistere. Allora potremmo parlare anziché di un pubblico più ampio, di una possibile vastità di incontri. Premesso questo, per rispondere più direttamente alla domanda, è chiaro che di esempi ce ne sono diversi. Penso a Montale stesso, o più indietro e sempre tramite la scuola, a Leopardi, a Baudelaire. Credo insomma che la formazione scolastica continui ad avere una sua funzione importante, ne sono convinto, e che gli studenti possano ancora innamorarsi della poesia e dei poeti. Ma oltre a questo penso anche a Szymborska, penso a Gualtieri di Fuoco centrale. Potrei fare diversi altri nomi, ma vorrei adesso dire un’altra cosa: credo che sempre più il futuro della lettura possa appartenere a passaggi o a composizioni brevi e fulminanti, come questo lampo di Zanzotto: «Io parlo in questa / lingua che passerà», o com’è questo haiku di Borges: «È un impero / quella luce che muore / o una lucciola?». 

 

La "poesia laureata" può avere un impatto sociale?

 

Se con “impatto sociale” s’intende la pretesa di incidere sulla società nel suo complesso direi decisamente di no, no. Potrebbe aver avuto corso questa aspirazione, nel “mondo” della poesia, fino ad alcuni decenni fa, dentro il secolo scorso (a mio avviso, anche allora sbagliandosi). Se invece intendiamo la “funzione sociale” come una particolare forza educativa possibile ovverosia la possibilità che la miglior poesia possa “spingere” verso un’educazione all’ascolto che faccia tendere a riconoscere la qualità e il valore di un testo (nella direzione appunto della vera grande poesia), allora sì, c’è da augurarselo, veramente.
Ciò che penso andrebbe evitato, in ogni caso, è pensare a una poesia dettata dalla cronaca, interventista, incastonata nel contingente. Dà, da quel che vedo, pessimi risultati. Leggo composizioni che non hanno compostezza; le due parole sono simili ed è bene che vadano a braccetto. La poesia poi, in fondo, si rivolge sempre a un fondo originario, scaturisce da una sorgente antica, e non teme e non vuole essere irretita dai tempi. Insomma, tanto meno è “contemporanea” tanto più è attuale. E ciò che è in atto può avere impatto. Forse non “sociale”, ma un impatto ce l’ha, può averlo, in chi la incontra.

Tutto dunque mi sembra appartenga alla categoria della qualità: qualità dei testi, qualità degli autori come degli editori. E ritengo in tal senso che sarebbe davvero auspicabile il recupero di un ruolo, questo sì fondamentale: della critica, del suo sforzo di oggettivazione. Per favorire, in modo se possibile compatto, il riconoscimento dei giusti valori poetici in campo. Sarebbe bello potesse avvenire a partire anche, principalmente forse, dalle migliori università. Anche in Italia.

 

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