Il pubblico della poesia #14: Eleonora Rimolo

Una riflessione collettiva. Quattordicesima puntata

di Adriano Cataldo

 

La poesia fa male

Nanni Balestrini

 

Per costruire questa piccola rubrica ci siamo posti una domanda: quali sono i confini della poesia?

In un mondo in cui il richiamo ai confini è spesso connotato all’esclusione, proponiamo all’opposto un ragionamento volto a ciò che possa accomunare le diverse realtà che operano nell’universo poetico italiano.

Non è nostro obiettivo stabilire una definizione di poesia, vogliamo invece parlare del suo pubblico. Il punto di partenza è un testo molto famoso del poeta Nanni Balestrini. In questo testo viene evidenziata l’esistenza di un “patto” tra chi fa poesia e chi ne fruisce. In questa prospettiva, risulta di fondamentale importanza capire i meccanismi di questa relazione pubblico-poeta, perché può dire molto sul fare poesia.

Come altre forme d’arte, l’universo poetico vive a nostro avviso una forte lacerazione.

Da un lato, si vede un’apertura molto forte al fare poesia, veicolata parzialmente dai nuovi media. Un’apertura orizzontale, che risponde alle necessità che hanno gli individui di esprimersi e di trovare parole per comprendere il proprio tempo. Un’urgenza che spesso non tiene conto della qualità del testo poetico.

Dall’altro lato, esiste un forte richiamo alla qualità del testo poetico, un’apertura verticale, che secondo alcuni dovrebbe rappresentare il confine per stabilire cosa sia davvero la poesia, per distinguerla dalla scrittura non-poetica, oppure da quella di poco pregio.

In base ai due diversi gradi di apertura, si possono identificare dal nostro punto di vista due tipi di poesia: una popolare e una laureata. Si tratta di due categorie analitiche, esemplificative, che servono per orientarsi, ma che nella realtà sono più sfumate.

Partendo da questo scenario, intervisteremo diversi esponenti del mondo poetico (poeti e poetesse, organizzatori e organizzatrici di eventi, critici e critiche) e ragioneremo sulle possibili differenze tra poesia popolare e laureata.

Dopo Fabrizio Venerandi, la nostra quattordicesima ospite è Eleonora Rimolo, (Salerno, 1991) è Dottore di Ricerca in Studi Letterari presso l’Università di Salerno. Ha pubblicato il romanzo epistolare Amare le parole (Lite Editions, 2013) e le raccolte poetiche Dell’assenza e della presenza (Matisklo, 2013), La resa dei giorni (Alter Ego, 2015 – Premio Giovani Europa in Versi), Temeraria gioia (Ladolfi, 2017 – Premio Pascoli “L’ora di Barga”, Premio Civetta di Minerva, Finalista Premio Fiumicino, Finalista Premio Fogazzaro) e La terra originale (pordenonelegge – Lietocolle, 2018 – Premio Achille Marazza, Premio “I poeti di vent'anni. Premio Pordenonelegge Poesia”, Premio Minturnae, Finalista Premio Fogazzaro, Finalista Premio Bologna In Lettere, Premio Speciale della Giuria “Tra Secchia e Panaro”, Segnalazione Premio “Under35 Terre di Castelli”). Suoi inediti sono stati pubblicati su “Gradiva”, “Atelier”, “Poetarumsilva”, “Poesiadelnostrotempo”, “Poesia2punto0” “Perigeion” e tradotti in diverse lingue (spagnolo, arabo, russo, francese, inglese, portoghese, macedone, rumeno). Con alcuni inediti ha vinto il Primo Premio “Ossi di seppia” (Taggia, 2017) e il Primo Premio Poesia “Città di Conza” (Conza, 2018). È Direttore per la sezione online della rivista Atelier.

(Eleonora Rimolo, foto di Daniele Ferroni)

 

Cosa spiega il successo della poesia popolare, in termini di vendite e copertura mediatica, nonostante la scarsa qualità dei testi?

Se per poesia “popolare” si intendono gli instant poet, essi semplicemente non si pongono nella condizione del poeta che, faticosamente e con tenacia, percepisce in nome di una intera umanità attraverso la testimonianza vera, onesta e necessaria dell’esperienza del limite, mediata e integrata dalle proprie singolarità e dalle proprie idee sul mondo, oltre che da un rapporto sano con i padri: senza queste premesse un testo non assume dignità letteraria alcuna e il poeta non conquista alcun tipo di identità o di originalità – cosa non scontata, e resa ancora più complessa e fumosa dall’uso spregiudicato del web e dei social, che hanno stravolto le modalità informative e comunicative della poesia oltre a contribuire alla proliferazione delle scritture istantanee che non hanno nessun tipo di relazione con la poesia e che non sono mediate da nulla, esistendo in funzione degli apprezzamenti di un pubblico inesperto ed eterogeneo che chiede a gran voce e di continuo contenuti spettacolari, performativi (al di là della sproporzione evidente tra produttori di testi e fruitori).

 

Esiste qualche esempio di buona poesia capace di raggiungere un pubblico più ampio?

La poesia dell’ultimo ventennio pare rappresentare in modo eloquente l’individualismo che domina l’occidente: gli stili poetici sembrano non appartenere né contestare nessun tipo di tradizione, ma denunciano comportamenti sociali diffusi quali il narcisismo, il rifiuto di ogni idea di “gruppo”, l’effusione perversa del sé. È il dibattito proposto da numerosi critici contemporanei: la tendenza comune è quella di dare unicità ontologica ai propri sentimenti senza trasformarli linguisticamente né rielaborarli dal punto di vista figurale reclamando, come unico fine della propria scrittura, consensi piuttosto che scambi di competenza con i critici o i poeti più esperti e in generale con l’eventuale «pubblico della poesia». È lecito a questo punto chiedersi cosa rimane davvero oltre allo scarto, alla maceria, e a che cosa può servire la poesia: io credo che la buona poesia nasca dalla consapevolezza che il relitto è certo necessario perché simbolo di una crisi che ha divorato il mondo Occidentale e che ha ferito mortalmente l’Io lirico privato; esso va interrogato, studiato, descritto con chiarezza e ostinazione. E con la speranza flebile di poter restituire attraverso la chiarità del verso e la sua potenza immaginifica un barlume di speranza e un monito a conservare la memoria di un insieme di valori che rimangono dentro di noi anche se globalmente risultano dispersi. È la forza della poesia che può riscoprirli, portarli alla luce, farli riemergere dal fondale della storia: l’abulia del quotidiano necessita di un cortocircuito che impedisca l’annullamento letale della nostra identità, della nostra umanità.
Hugo sostiene che i poeti hanno dentro di sé un riflettore, l'osservazione, e un condensatore, la commozione. Non c’è poesia senza vita, e viceversa, soprattutto quando la collettività è chiamata quotidianamente a rispondere ad un numero cospicuo di esperienze che ci vedono protagonisti attivi, e a cui dovremmo rispondere collettivamente. La poesia può quindi oggi spingere ad una riflessione comune, a dei motus animi collettivi, insomma ad un qualsiasi sommovimento dello spirito che possa restituire la voce ad un mondo ora embrione, in attesa di nuova linfa, scongiurando il pericolo di piombare in un’ “esistenza inautentica”, come la chiamerebbe Heidegger, perché completamente inaderente alla nostra autonoma ricerca del bello e della felicità.

 

La "poesia laureata" può avere un impatto sociale?

La convinzione contemporanea dilagante è che la vita personale di chi scrive abbia un immediato valore universale, e che sia addirittura essenziale per veicolare verità assolute su un aspetto della realtà. Per questo la poesia ha perso qualsiasi tipo di impatto sociale che dir si voglia: nella speranza di giungere all’universale tramite un individuale spregiudicato, la tendenza oggi è quella di rappresentare un mondo che non è altro se non lo specchio sterile del proprio sé, quando invece il punto di vista andrebbe radicalmente capovolto così da porre il poeta nella condizione di chi percepisce in nome di una intera umanità. Ciò che potrebbe invertire la tendenza potrebbero essere opere e voci riconoscibili, strutturate in accordo con la necessità di abbassare l’indice di artificialità che dilaga dopo la formalizzazione della possibilità di andare a capo casualmente (e affermando solo per questo di stare scrivendo poesia) e con una allusività formale e tecnica ridotta al minimo indispensabile. Senza rinunciare mai al ritmo e alla metrica, insomma, ma aprendosi alla realtà, ordinandola e organizzandola esteticamente, senza rinunciare al carico esperienziale non sempre positivo – anzi, quasi sempre di denuncia o di attestazione di ciò che il mondo contemporaneo e la storia degli uomini offrono. I testi dovrebbero immediatamente suggerire una sensazione di naturalezza atta ad accogliere le scorie del quotidiano, ma nello stesso tempo rifiutando la spettacolarizzazione del dolore trattato.

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