Il pubblico della poesia #10: Lia Galli

Una riflessione collettiva. Decima puntata

 

di Adriano Cataldo

 

La poesia fa male

Nanni Balestrini

 

Per costruire questa piccola rubrica ci siamo posti una domanda: quali sono i confini della poesia?

In un mondo in cui il richiamo ai confini è spesso connotato all’esclusione, proponiamo all’opposto un ragionamento volto a ciò che possa accomunare le diverse realtà che operano nell’universo poetico italiano.

Non è nostro obiettivo stabilire una definizione di poesia, vogliamo invece parlare del suo pubblico. Il punto di partenza è un testo molto famoso del poeta Nanni Balestrini. In questo testo viene evidenziata l’esistenza di un “patto” tra chi fa poesia e chi ne fruisce. In questa prospettiva, risulta di fondamentale importanza capire i meccanismi di questa relazione pubblico-poeta, perché può dire molto sul fare poesia.

Come altre forme d’arte, l’universo poetico vive a nostro avviso una forte lacerazione.

Da un lato, si vede un’apertura molto forte al fare poesia, veicolata parzialmente dai nuovi media. Un’apertura orizzontale, che risponde alle necessità che hanno gli individui di esprimersi e di trovare parole per comprendere il proprio tempo. Un’urgenza che spesso non tiene conto della qualità del testo poetico.

Dall’altro lato, esiste un forte richiamo alla qualità del testo poetico, un’apertura verticale, che secondo alcuni dovrebbe rappresentare il confine per stabilire cosa sia davvero la poesia, per distinguerla dalla scrittura non-poetica, oppure da quella di poco pregio.

In base ai due diversi gradi di apertura, si possono identificare dal nostro punto di vista due tipi di poesia: una popolare e una laureata. Si tratta di due categorie analitiche, esemplificative, che servono per orientarsi, ma che nella realtà sono più sfumate.

Partendo da questo scenario, intervisteremo diversi esponenti del mondo poetico (poeti e poetesse, organizzatori e organizzatrici di eventi, critici e critiche) e ragioneremo sulle possibili differenze tra poesia popolare e laureata.

 

Dopo Maria Grazia Calandrone, la nostra decima ospite è Lia Galli, docente di letteratura italiana e cultura generale nella Svizzera italiana, co-fondatrice assieme ad Aluna Hofmann, e redattrice della rivista culturale indipendente De-Siderium. Su De-Siderium cura una rubrica incentrata sul fenomeno del poetry slam in cui si occupa dell’analisi e del rapporto tra testo e performance. Ha pubblicato due libri di poesia, “Non si muore più per un bacio” (2015) e “Costellazioni distoniche” (2019), entrambi per l’editore alla chiara fonte.

 

(Lia Galli)
 

Cosa spiega il successo della poesia popolare, in termini di vendite e copertura mediatica, nonostante la scarsa qualità dei testi?

Non credo che la poesia che potremmo definire popolare sia per forza poesia di scarsa qualità. Anche se con la definizione di poesia popolare si vuole intendere una poesia orizzontale, che riesce a coinvolgere un grande numero di persone, a mio avviso occorre fare dei distinguo. C’è della poesia popolare che vende molto ed è la poesia che potremmo definire da Instagram che più che alla poesia si rifà, a mio parere, a quelli che abbiamo sempre chiamato aforismi, e si esprime per brevi massime, più o meno riuscite ed efficaci, sulla vita. In questa tipologia solitamente si trova brevità, non c’è uno sviluppo di temi o una vera e propria struttura del testo, non ci sono quei marcatori tipici della poesia, come degli aspetti fonoritmici, elementi metrici e retorici, sono assenti riferimenti intertestuali e manca una profondità rispetto ai temi trattati. Questo tipo di poesia vende molto, proprio perché in realtà spesso si tratta di aforismi, di solito a tema amoroso, o comunque di testi facilmente fruibili e comprensibili senza sforzo da una larga fetta della popolazione e in particolare da adolescenti, che della poesia non conoscono altro e hanno però bisogno di un immaginario facilmente spendibile a cui rifarsi. Credo che questa necessità umana di trovare parole -spesso anche brutte, appunto, o di scarsi contenuti – a cui ricondurre la propria esperienza, testimoni un profondo bisogno umano di dar voce – con parole proprie o di altri – alla propria interiorità.

C’è poi della poesia che si può definire popolare perché arriva a coinvolgere un vasto e eterogeneo pubblico, ma che possiede comunque della qualità e si basa su una ricerca specifica, anche se non tradizionale. In questo senso penso alla poesia orale e al fenomeno del poetry slam, che richiamano un vasto pubblico, a mio avviso perché spesso si avvalgono di strumenti nuovi, contemporanei, quali, nel caso della poesia orale o performativa, la musica o il video. In questo tipo di poesia, al centro vi è la parola pronunciata, la voce dell’autore, e di solito viene presentata al pubblico attraverso spettacoli in cui, oltre al linguaggio proprio della poesia, fatto di elementi stilistici e tematici, vengono associate la presenza sul palco, la forza dell’interpretazione, dunque quelli che Rosaria Lo Russo definisce dispositivi teatrali. Questo tipo di poesia, avvalendosi da un lato di nuove tecnologie che la rendono una forma d’arte totale, in cui vi è una commistione di musica, immagini, voce, testo, e dall’altro riportando sulla scena la corporeità dell’autore e dei dispositivi teatrali, riesce a rendere l’esperienza poetica collettiva e non più individuale, rendendola anche più fruibile al pubblico e a chi non ama leggere libri di poesia, che per essere compresi necessitano di concentrazione, silenzio, riflessione.

Poesia popolare non è dunque necessariamente sinonimo di scarsa qualità, ma quando lo è, il suo successo è relativo a un pubblico specifico, che di solito non frequenta altri tipi di poesia, ed è dovuto al suo essere semplice, immediata, e al fatto che non necessita di particolare riflessione, sforzo o di conoscenze poetiche per essere compresa.

 

Esiste qualche esempio di buona poesia capace di raggiungere un pubblico più ampio?

La poesia, nella sua forma tradizionale, non ha un ampio pubblico, perché, come rileva Emilio Manzotti, “i testi poetici tendono ad essere in vario modo allusivi: più che rappresentare situazioni ben determinate (reali o fittive), essi le evocano per tratti, per singole caratteristiche; più che designare delle entità in modo comunicativamente efficace per i lettori, essi le danno per scontate, alludendovi molto sommariamente quasi fossero di dominio comune. (…) Questa connaturata allusività da una parte comporta un’oscurità relativamente elevata: il testo poetico si presenta sovente al lettore come opaco, come un enigma comunicativo; (…). Ne consegue che un testo poetico vero conterrà sempre un invito al lavoro interpretativo da parte del lettore o di quel suo mediatore che è il filologo e il critico.”

Questa opacità del testo poetico necessita uno sforzo interpretativo che molti non hanno voglia o tempo o capacità di compiere e questo fa sì che il pubblico della poesia sia un pubblico di appassionati, spesso composto dai poeti stessi. Anche nel caso in cui la poesia scritta abbia un pubblico più vasto rispetto al solito, si tratta dunque sempre di un pubblico ristretto rispetto a quello, ad esempio, della musica. Esistono però poeti di qualità che vengono letti e hanno un pubblico abbastanza consistente; penso ad esempio, tra i poeti viventi, a Mariangela Gualtieri, a Chandra Livia Candiani o a Fabio Pusterla, almeno nella Svizzera italiana.

 

Per quanto riguarda quelle opere poetiche che sono entrate nel canone, invece il discorso è ancora diverso. Autori come Montale, Ungaretti, Saba – per rimanere nell’ambito della poesia italiana – sono autori che quasi tutti conoscono e di cui tanti saprebbero citare almeno un testo. Questo perché vengono studiati a scuola e perché, giustamente, vengono assunti a modelli, dunque sono circondati da un’aura di intoccabilità, di autorevolezza e di grandezza che viene conferita solo in rari casi e post mortem nell’epoca contemporanea. Il mondo della cultura è cambiato molto rispetto al passato; una volta sui quotidiani venivano pubblicati interventi di intellettuali che erano spesso poeti, mentre oggi queste figure sembrano scomparse, e anche in televisione non esistono più quei programmi culturali che un tempo la RAI trasmetteva – per citarne uno “Match”, condotto da Arbasino – in cui si parlava di letteratura e i poeti avevano spazio e modo di raccontarsi, e in cui era loro concesso di fornire anche un giudizio critico sulla società. Inoltre, anche il mondo della scuola fatica già a inserire nei suoi programmi, spesso carichi e densi, la poesia della seconda metà del Novecento, figuriamoci i poeti contemporanei, la cui autorevolezza non è ancora attestata dal tempo, dalle influenze su altri autori e non è di fatto ancora comunemente riconosciuta, dato che un canone si costruisce per natura a posteriori, vedendo ciò che rimane e come agisce l’opera di un autore sulla propria epoca e su quelle successive.

Ci sono quindi poeti di qualità capaci di raggiungere un pubblico più ampio seppur sempre circoscritto, ma la poesia ha tempi lenti, dunque questi autori di qualità sono ormai in buona parte morti, mentre quelli viventi impiegano nella maggior parte dei casi una vita intera per costruirsi un proprio pubblico.

 

La "poesia laureata" può avere un impatto sociale?

La poesia laureata è la poesia di autori entrati nel canone ed è buffo pensare che Montale, autore che oggi è ormai entrato indiscutibilmente nel canone, all’epoca degli “Ossi di seppia”, definisse ne “I limoni” la sua poesia per antitesi rispetto a quella dei poeti laureati. I poeti laureati per Montale erano quelli che avevano ottenuto la fama, i riconoscimenti letterari e che si esprimevano con solennità, enfasi, preziosismi e, in definitiva, avevano poca convergenza con la realtà quotidiana. 

Chi sono quindi i poeti laureati? Lasciando da parte l’ironica definizione montaliana, se per poeti laureati si intendono quei poeti entrati nel canone, ormai riconosciuti, si può certamente dire che hanno un certo impatto sociale. A livello superficiale lo hanno innanzitutto nelle vite dei ragazzi che li studiano a scuola, ma lo hanno poi anche per chi scrive e non può ignorarne l’opera, perché ormai sono diventati dei modelli e, anche solo per sabotarne o per sovvertirne gli esiti, non possono essere ignorati. 

Per quanto riguarda la società, non credo che la poesia – a causa della sua scarsa diffusione – abbia la forza di esercitare davvero dei cambiamenti nell’immaginario popolare così come non credo che la poesia cosiddetta civile possa portare realmente a cambiamenti sociali; per portare una trasformazione a livello sociale è certamente più utile un testo argomentativo, un saggio, una presa di posizione in un programma televisivo, oppure andare a votare, eleggere rappresentanti politici preparati, scendere in piazza. 

Ciò che può fare la poesia, a mio avviso, è far risuonare nel lettore qualcosa che è già presente in lui, può dar forma e voce a sensazioni confuse che già possiede ma che non ha trovato modo di esprimere, oppure può suggerire uno sguardo differente sulle cose creando piccoli cortocircuiti. La poesia è capace di darci dei simboli, delle immagini a cui riferirci per comprendere meglio la vita e anche per affrontarla meglio, nei casi più riusciti. In questo senso non ha un impatto sociale, inteso come un impatto collettivo, capace di produrre cambiamenti consistenti nella società, ma ha un impatto individuale, nelle vite dei singoli e di chi in un momento della sua vita si trova in risonanza con una parola, con un’immagine di un certo autore. Ci sono autori di qualità, dei quali si riconosce la bravura, che parlano a molti ma magari a qualcuno non comunicano niente, e per questo motivo non avranno nessun impatto nella sua vita. Ce ne sono poi altri, magari anche meno bravi stilisticamente dei primi, che sono invece affini al nostro sentire e entrano in dialogo con il nostro vissuto, con altri autori letti, andando a creare un immaginario che concorre a formare ciò che siamo.

 

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