flyTER

di Gabriele Barichello

L’arte di collezionare mosche
Fredrik Sjoberg

Col passare del tempo Iperborea sta guadagnando sempre più spazio negli scaffali delle librerie, è un progetto ambizioso ma curato e coerente. La raccolta di autori nordeuropei, finemente tradotti, si arricchisce a mano a mano con esempi di grande letteratura: Wieringa, Niemi, Lindgren. Nomi illustri e altri meno conosciuti, raccolte di fiabe faroesi, islandesi, uno squarcio nella percepibile barriera culturale che separa il nord Europa da noi cugini meridionali. Avvicinarsi a queste letture non è sempre agevole, lo stile è generalmente molto diverso, i ritmi sono compositi e andanti, i paesaggi e i personaggi lunari, certi atteggiamenti incomprensibili. Fredrik Sjoberg nella vita non è uno scrittore, è un collezionista di sirfidi, di cui risulta esserne uno dei maggiori esperti mondiali: nessuna persona sensata si interesserebbe alle mosche, lo ammette l’autore stesso, non è certo il primo argomento che può venire in mente durante un aperitivo, od a cena con gli amici, o la domenica in casa con la famiglia. Insomma, le mosche non riescono a ritagliarsi i loro cinque minuti di notorietà quasi mai, eppure, perché c’è un eppure, sono fedeli compagne di qualsiasi giornata primaverile, estiva o autunnale, ci sono, questo è certo, ed infastidire è un po’ il loro mestiere. Quando Sjoberg ci racconta delle interminabili attese che precedono la cattura dell’insetto potrebbero crearsi nel lettore due sensazioni contrastanti: da un lato ormai abituati alle consegne in 24 ore da qualsiasi parte del mondo, al fast food, alla fast fashion, è impensabile ritrovarsi inginocchiati in un giardino per ore ad osservare questi sirfidi aspettando il momento propizio per avventarsi su di esse. Il rifiuto. Dall’altro però non bisogna nasconderlo, un certo senso di soddisfazione: come fosse una vendetta da contrappasso per tutte quelle ore di noie che sono capaci di provocare. La soddisfazione. Trappole geniali e sofisticate che in un attimo cancellano quelle ore di sventolii di mani pari solo a quelli di chi salpa col Titanic di Cameron. Una prospettiva diversa quindi, talmente controversa da renderla affascinante; è indubbio che con questo genere di ritmi si ha il tempo di riflette e condurre il pensiero in posti esotici: Kundera, Lawrence, inaspettate comparse in questi giardini idilliaci. L’autore non pretende di essere conoscitore della realtà come lo è degli insetti, con questo atteggiamento umile e propriamente nordico ci dà la sua versione. Bisognerebbe provare a lasciarsi trascinare e guidare da Sjoberg in questo cammino, che finirà con l’inevitabile disinteresse per i sirfidi, ma con la voglia, si spera, di trovare come lui una passione che significhi libertà.    

 

La mosca
David Cronenberg

Un’oscura fantascienza ricopre la pellicola di Cronenberg dell’86, ispirata al romanzo La Mouche di George Langelaan del 1957. Un giovane Jeff Goldblum interpreta il protagonista, lo scienziato Seth Brundle, intento a scuotere l’animo della comunità scientifica mondiale con la realizzazione della prima macchina per il teletrasbordo. Brundle vive al margine della società, il suo studio è situato in una fatiscente costruzione commerciale in periferia, ma a guidarlo è la forza della coscienza razionale: un rifugio di crepe e polvere nobilitato da un pianoforte (che suona con vigore). Una figura ascetica quasi, profeta della rivoluzione scientifica tormentato dalla gelosia nei confronti del suo primo (e forse unico) contatto umano, la giornalista Ronnie Quaife; decide quindi, preso dai fumi dell’alcool, di provare il teletrasbordo in un improvviso moto di eroismo: “quel generale disse: non vi chiederei mai di fare niente che non farei anche io” sostiene rivolto ad un babbuino sopravvissuto ai suoi esperimenti. Entrato nella prima telecapsula non si accorge che a fargli compagnia c’è una mosca, tragicamente evidenziata dalla ripresa, con la quale vedrà mescolato il proprio corredo genetico, dando vita ad un ibrido mostruoso. La metamorfosi è tuttavia molto lenta, progressivamente egli va perdendo ciò che lo contraddistingueva, valicando anche i limiti dell’umano, un superuomo: capace di sforzi fisici inverosimili, di prestazioni sessuali irrefrenabili. Tutto ciò lo galvanizza, estasiato da queste scoperte perde inesorabilmente il contatto con la realtà e la trascende. Non proprio un nobile esempio di metamorfosi, ma neanche il primo (dico solo Franz Kafka). La celebrazione del potenziale umano grazie al progresso tecnologico prosegue, fino allo scontrarsi inevitabile con il presagito: un essere deforme riempie lo schermo, dove l’essere è umano solo in alcuni timidi contenuti: “…voglio essere il primo insetto politico.” Un film disturbante, a tratti proprio schifoso nella repulsione che ci crea questa Brundle-fly, consacrazione del totale disumano scalfito solo dall’ultimo e finale desiderio di annichilimento che muove il suo braccio nel tentativo di poggiare la canna del fucile sulla propria fronte. Centinaia potrebbero essere i significati, altrettanti sono i significanti per questo film che non può piacere, non può non essere scomodo in questa franca rappresentazione di Brundle che diventa Brundle-fly, che altri non è che un uomo, qualsiasi uomo, che dimentica cosa significhi essere umano.

 

I tell a fly
Benjamin Clementine

Dopo ben due anni di viaggi ed esperienze Benjamin Clementine torna con questo album col quale tenta di tracciare il percorso fatto da due mosche. Un tentativo generoso da parte dell’artista, che dopo aver sconvolto il panorama del cantautorato statunitense ha ben deciso di farsi conoscere e amare anche nel vecchio continente. Non maschera le sue origini, la sua passione per Anthony and the Johnsons, per l’opera, per l’arte drammatica. Sorretto da un’estensione vocale che gli permette tutto, da un timbro riconoscibile e originale, ha il coraggio di esprimere la sua vena più intimamente artistica. In un’umile opinione credo che questo possa essere la linea Marginò che separa i prodotti per l’industria musicale da un’espressione artistica musicale pura. La forza del suo intento, espresso in questo album coerente, complesso ma inevitabilmente affascinante, quasi rapsodico. Un album dove l’estetica è originale tanto quanto lo sono le armonie: il suo talento al piano apre e si svela con il brano Farewell Sonata, agitato nel secondo movimento, ma è solo un espediente scenico, il farci sentire tranquilli prima di lanciarci nel pianificato caos che si apre con God Save The Jungle. Distante dal panorama contemporaneo eppure permeato dalla contemporaneità come nel caso di By The Ports of Europe, Clementine è un felice baluardo di uno stile che diventa moda, e non il contrario. Estetico, simbolico, l’album contiene 11 tracce dalle quali è difficile selezionarne alcune. Di certo non è pensato come contenitore parzialmente vuoto per una hit destinata alla radio, è un manifesto artistico di fattura autentica. È un viaggio impegnativo e per niente scontato, un tributo alla musica come espressione dell’anima, senza colori politici, fedeli soltanto alla propria coscienza artistica: non brani da automobile, non da ascensore, e spero di non sentirli mai in sottofondo al banco dei surgelati dell’Ipercoop. Una musica da ascoltare con attenzione, fatta di note e parole pesate e mai pesanti. Ave dreamer chiude questo prezioso album, un inno ai sognatori e ai sogni che combattono e resistono ai barbari, e non si può quindi che ringraziare Clementine, per averci fatto sognare: Heil dreamer!