Del cinema e di altri demoni #02

di Giacomo Ferri

 

Qualche sera fa cercavamo di decidere con alcuni cari amici quale film guardare. Erano amici esigenti: volevano un film d’azione che non fosse eccessivamente violento; volevano l’adrenalina senza troppo pathos; volevano anche ridere, magari. Non abbiamo ancora trovato – dovesse esistere – il film giusto, quello che soddisfi tutti i requisiti. 

Come spesso accade in circostanze del genere, la proposta più affascinante c’è venuta in mente troppo tardi: Captain Phillips (2013), pellicola diretta da Paul Greengrass.

Captain Phillips racconta la vera storia dell’assalto da parte di quattro pirati somali di una nave mercantile U.S. avvenuto nel 2009 e la presa in ostaggio del comandante Richard Philipps, interpretato da Tom Hanks

Seguono spoiler.

Tom Hanks è salito alla ribalta nelle ultime settimane perché è stato uno dei primi ‘personaggi famosi’ ad ammalarsi di Covid-19. Era all’estero, in Australia, insieme alla moglie Rita. La notizia ci sorprende? Conoscendo la filmografia di Tom Hanks, no, non ci sorprende affatto. In fondo, stiamo parlando di un uomo che ha fatto un naufragio, che è rimasto chiuso nel terminal di un aeroporto, che ha dovuto far atterrare un aereo nell’Hudson e che per poco non moriva in maniera lenta e dolorosissima nello spazio sull’Apollo 13. E questo per citare solo i suoi film più famosi.

Questo ruolino di marcia basta a fermarlo? No, e per fortuna, visto l’altissimo tenore delle sue interpretazioni. 

In Captain Phillips attraversa tantissimi stati emotivi e risulta sempre dannatamente credibile: dal coraggio con cui guida il suo equipaggio al momento dell’arrembaggio dei pirati fino alla paura e al senso di definitiva sconfitta che prova all’interno dell’angusta scialuppa che i somali usano per rapirlo. Uno dei punti più alti – non solo del film ma di un’intera magistrale carriera – coincide con la parte finale della storia, quando Richard Phillips viene finalmente salvato dalla Marina americana proprio nel momento in cui tutto sembra perduto: la resa della paura, del senso di smarrimento, del dolore, dello shock, del sollievo, dell’incredulità è così devastantemente realistica da coinvolgere le corde più profonde del nostro animo. Quando Tom Hanks ride, noi ridiamo. Quando piange, piangiamo. Quando prova lo spettro di emozioni che riesce a rendere con una piega della bocca, un gemito, una smorfia, una parola, una lacrima che corre sulla guancia, noi non possiamo altro che scioglierci con lui ed erigere un monumento ad un attore già di per sé monumentale.

 

Da un film americano ci si aspetta sempre un patriottismo più o meno subdolo, una certa presa di posizione rispetto agli eventi spesso prevedibile e, in quanto tale, il più delle volte fastidiosa. Un film come Captain Phillips, che racconta l’epico e rocambolesco salvataggio da parte della Marina americana di un cittadino americano catturato dai pirati, si presta benissimo a una rappresentazione del genere, in “bianco e nero”: Richard Phillips è la vittima, il buono, l’eroe, suo malgrado; i pirati sono il nemico da sconfiggere, i cattivi, i carnefici da eliminare a ogni costo. 

Fortunatamente, Paul Greengrass, regista della pellicola, è inglese e sfugge questo facile manicheismo. Quando i cecchini americani freddano i pirati che tengono in ostaggio il personaggio interpretato da Tom Hanks, non proviamo quel senso di euforica liberazione che solitamente accompagna – nei film o nelle serie tv – l’eliminazione di un personaggio spregevole. No, ci sentiamo colpevoli, macchiati del sangue di quei pirati assassinati. Forse perché quei somali non sono i veri nemici, ma sono anch’essi vittime di un sistema più complesso e brutale, un sistema che l’America stessa – e tutte le grandi potenze economiche – contribuisce ad alimentare, sovvenzionando i vari signorotti della guerra locali e depredando gli stati africani di tutte le loro ricchezze?

Sotto questa luce, allora, acquista un senso terribile e definitivo lo scambio di battute tra Abduwali Muse, capo dei pirati somali, e Richard Phillips. Quando questo gli fa notare che deve esserci un’altra possibilità, un altro modo di guadagnare e vivere che non sia assaltare le navi e rapire le persone, Muse gli risponde con quella pacata e rassegnata consapevolezza di chi sa che il suo destino è segnato ben prima di nascere: “Forse in America. Forse in America”.

Qui sta tutto il film.