Brexit, un terremoto mentale

di Gaspare Nevola

Docente di Scienza Politica presso la Facoltà di Sociologia

 

Il referendum sulla Brexit ha provocato un terremoto. Un terremoto mentale, prima ancora che politico o economico. Ad essere colpite sono state molte teste e molte analisi. Ma si fatica a rendersene conto. 

Il fenomeno, a dire il vero, non è del tutto sorprendente: in un mondo troppo abituato all’idea che “non ci sono alternative” all’esistente, il fatto stesso che da qualche parte d’Europa qualcuno faccia una scelta in contrasto con quelle accreditate, è di per sé traumatico per i più. D’altra parte, il pronunciamento dei cittadini britannici a favore dell’uscita dall’Unione Europea può provocare effetti di vasta portata, può scuotere un intero sistema: il modello di regolazione delle società europee, la costruzione istituzionale dell’UE, la cultura politica dominante, i modi di pensare correnti (e disabituati al senso critico).

Ma non rappresenta la fine del mondo, non siamo arrivati all’Anno Mille. E nemmeno alla fine dell’Europa. Semmai siamo di fronte all’ultima presa di posizione, fortemente simbolica, contro “questa” Unione Europea: per la prima volta viene messa in crisi la stessa idea di “stare nell’Europa” rappresentata da “questa” UE, con i suoi valori: edificanti per come sono stati raccontati negli ultimi trent’anni, ma mai presi sul serio o approssimati dalle classi dirigenti che l’hanno via via costruita. La narrazione elitaria dell’UE, a tratti dipinta quasi come incarnazione della Terra Promessa, ha fatto presa su alcuni segmenti della società ma è presto suonata vuota e falsa a molti altri, più di quanti abbiano votato o voterebbero per l’uscita. E questi altri ormai sono diventati davvero tanti.

Tra le vittime principali del terremoto mentale ci sono le cancellerie europee e i dirigenti di Bruxelles, settori della pubblica opinione, dell’intellettualità e dei media occidentali, élite e “generazioni Erasmus”, i social media come nuovi luoghi di dibattito e formazione delle opinioni. Ad essere terremotate sono state le idee: la capacità di valutare l’accaduto e di farci i conti, la compostezza e la lucidità del ragionare politico e del prendere posizione.

Solo così possiamo spiegarci l’enorme serie di reazioni scomposte e incredibili da parte di vari soggetti che ci hanno portato a una grande abbuffata di sciocchezze. Come definire se non una sciocchezza, per non dire arroganza, la pretesa di ripetere il referendum britannico per il semplice fatto che ha vinto il Leave? Vengono in mente i bambini quando giocano e qualcuno di loro che urla con protervia o petulanza: “si rifa, si rifa… rifacciamo”, solo perché ha perso al gioco. In questo caso mamma o papà, se presenti, insegnano e richiamano il rispetto delle regole. Nel caso del referendum sulla Brexit pensiamo alla delirante raccolta di firme (oline) per chiedere la ripetizione del referendum. L’iniziativa virale si è, poi, rivelata perfino truccata, hackerata. Ma per giorni la notizia ha occupato le prime pagine di giornali, telegiornali e si è sparsa nella rete: “Un milione di firme… Due milioni… Tre milioni!”, creando un clima surreale che è certo penetrato nella testa di milioni e milioni di persone. È un episodio che dovrebbe darci una lezione sui meccanismi correnti di formazione dell’opinione pubblica.

Ma ci sono molti altri esempi di sgradevole miscela di sciocchezze e arroganza. Tra questi, la pretesa da parte degli scozzesi, con i loro dirigenti politici in testa, di indire un nuovo referendum di indipendenza dalla Gran Bretagna, a distanza di appena due anni da quello perduto nel 2014. Oppure la singolare idea che gli anziani debbano smetterla di votare per scelte che impegnano il futuro dei giovani, specie se fanno scelte che non piacciono: un modo davvero singolare di intendere il significato e le regole della cittadinanza democratica. O, ancora, la convinzione, tutta ipotetica se non gratuita, che le multinazionali e la grande finanza lasceranno la City di Londra, quasi che il sistema del capitalismo finanziario non sia in grado di gestire i propri flussi internazionali anche al di fuori dell’UE (come peraltro già fa da sempre), quasi che l’apertura dei mercati economici nasca e finisca dentro i confini dell’UE e del suo mercato.

Ma sono altre le sciocchezze ancora più imbarazzanti. Si sbaglia a lasciarle scorrere facendo finta di niente, e a rubricarle magari come scontato “teatrino mediatico-diplomatico”: è un modo, questo, di accrescere l’irrilevanza dell’opinione pubblica nella quale sono state fatte circolare. Si tratta, per di più, di prese di posizione da parte di alti rappresentanti delle istituzioni di Bruxelles e di non poche cancellerie europee: a farle passare nel silenzio rischiamo di abbandonare al loro destino le nostre classi dirigenti, senza il pungolo della critica, e con esse noi stessi. Nel merito, la questione riguarda i tempi e i modi dell’uscita dalla Gran Bretagna dall’UE – ammesso che vada a finire proprio così. A primeggiare, in questo caso, è stato Juncker. Negli scorsi giorni, infatti, il presidente della Commissione Europea non ha perduto occasione per dichiarare alla stampa, e persino in Parlamento Europeo, che “la Gran Bretagna deve uscire subito”, molto presto; secondo Juncker, al più tardi “Il giorno dopo la nomina del nuovo Primo Ministro britannico, vogliamo ricevere la richiesta di recesso sulla base dell’art. 50 del Trattato”, fermo restando, a suo avviso, che a dettare l’agenda sul processo di separazione sarà l’UE e non il Regno Unito. Parole di stizza gettate al vento, non esattamente atteggiamenti da statista europeo. Ma sulla stessa scia si è mossa anche la risoluzione (“non vincolante”) approvata a maggioranza dal Parlamento Europeo il 28 giugno (395 voti a favore, ma ben 200 contrari e 71 astenuti), che chiede “una implementazione rapida e coerente della procedura di revoca” dell’appartenenza britannica all’UE; come pure, tra i tanti, la ministra degli Esteri svedese all’indomani del referendum britannico: “Ora la Gran Bretagna deve uscire al più presto. Il popolo ha votato, ha scelto!”. Che dire? Sembrano dichiarazioni “sull’orlo di una crisi di nervi”, più che valutazioni di spessore e saggezza politici, o ispirate al rispetto delle regole. 

Forse Juncker e coloro che vi si accompagnano  non conoscono bene i trattati che sono chiamati ad amministrare, e a rispettare. Forse non hanno idea di come funzionino i processi della politica “straordinaria” quali sono quelli inerenti le separazioni o le secessioni: già quando coinvolgono due coniugi, magari con figli, figuriamoci quando interessano intere comunità politiche, sistemi economici e finanziari, valori e sentimenti collettivi. Ad ogni modo, dall’11 luglio la Gran Bretagna ha il suo nuovo premier, Theresa May – e non è successo niente. Piuttosto, dopo pochi giorni, senza scomporsi, la neo-premier ha reso noto che si dovrà attendere sino alla fine dell’anno prima che il suo governo chieda l’applicazione dell’art. 50 del Trattato (quello che disciplina l’exit degli Stati membri). È uno scenario che dilata i tempi della decisione definitiva e stabilisce a chi competa l’avvio della procedura di uscita. E in un solo colpo fa sbiadire gli ultimatum di Juncker e ammutolisce le istituzioni di Bruxelles e molte cancellerie europee. Ma è anche uno scenario che rientra perfettamente nelle regole dei trattati europei, oltre che riflettere la realtà della politica. 

Ancora. Secondo il presidente del Parlamento europeo, il socialdemocratico tedesco Schultz, l’UE non ha nulla da rimproverarsi per l’aperta crisi in cui essa versa: egli  ritiene che tutte le responsabilità siano della Gran Bretagna. Se così fosse, allora come dobbiamo spiegarci il fatto che da diversi ambienti della politica europea giungono notizie di movimenti in direzione di un rifacimento del corpo istituzionale e politico dell’UE? Gli Stati europeo-orientali del Gruppo Visegrád, ad esempio, premono per nuovi trattati europei che diano maggiori poteri ai paesi membri, e chiedono le dimissioni di Juncker, accusato di non aver saputo gestire la crisi Brexit né prima né dopo il referendum. Un’ipotesi, quest’ultima, stando ad alcune indiscrezioni, a cui starebbe pensando anche la cancelliera Merkel, che tuttavia vorrebbe percorrere, come è nel suo stile, una strada meno traumatica. Il potente ministro delle finanze di Germania, il democristiano Schäuble, d’altro lato, progetta iniziative dirette ad accentuare la logica intergovernativa della politica europea, e a marginalizzare quella comunitaria in capo alla Commissione europea

A un mese di distanza del referendum sulla Brexit, a dispetto delle roboanti parole spese da molti che pure hanno responsabilità pubbliche, l’UE pare paralizzata, presa tra il prudente attendismo della Merkel, il dinamismo verbale alla Juncker e l’impotenza di tutti gli altri, francesi e italiani per primi. Nessuno ha il coraggio o le idee necessarie, anche se non sufficienti, per portare dentro l’agenda pubblica e politica europea le uniche due opzioni sensate con cui l’UE in crisi dovrebbe oggi fare i conti:

1) muovere verso una vera e propria integrazione politica, attraverso un’unificazione, costituzionalizzazione e democratizzazione dei poteri di Bruxelles, oppure 2) andare verso una esplicita politica della sussidiarietà e delle autonomie, a metà tra un assetto di tipo federale e uno di tipo confederale, che riconsegni agli Stati margini reali di azione e di responsabilità di fronte alle emergenze di questi anni, lasciando a Bruxelles la regia del coordinamento di alcune politiche e un ruolo di mediazione su alcune grandi problemi (immigrazione, profughi, terrorismo, ambiente, povertà), con la finalità di accorciare le distanze tra i vari Stati.

Quale poi sia la strada che si possa effettivamente intraprendere dipenderà anche dalla capacità delle classi dirigenti di interpretare i segni dei tempi: e questi, invero, non lasciano molti dubbi. Tuttavia, agli occhi del presidente del Parlamento europeo Schultz, il confronto su questo tema non sarebbe altro che un “dibattito filosofico” privo di interesse. L’UE resta così appesa ad un fragile intergovernativismo asimmetrico che scivola in un mal sopportato neo-imperialismo germano-centrico. Il re probabilmente non è nudo. Ma certo piuttosto in désabillé.

A chiudere una pagina di letteratura, di graffiante delicatezza: l’ironia critica del vecchio Ariosto. Con stupore, il suo Astolfo scopre che il senno di Orlando, cavaliere furioso sulla terra, riposa sulla luna. Accanto a esso quello di molti altri che si credeva lo avessero ancora con loro nella vita terrena: senno perduto dagli umani per amore o per onore, nella ricerca di ricchezza e affrontando i mari, per fiducia nei loro signori o nelle futili arti della magia. Buona lettura.