Aquila Basket is just for lovers

Come godersi i #playoff2015 senza sapere realmente cosa siano.

Di basket non ci capisco niente ed evidentemente non ci capirò mai niente, se nonostante ottimi maestri mi ostino a non intendere come funzionino i tempi di recupero. Però Mercoledì sera ero a vedere Trento – Sassari e lì qualcosa è scattato e, confesso, che una estranea all'ambiente e adottiva trentina come me continua a seguirne le imprese in questo momento in Sardegna: un motivo c'è.

Non era la prima volta che varcavo le soglie del Palatrento, ma questa volta ho volontariamente osservato di più, osservato meglio. Proprio perchè esterna a questo ambiente ogni aspetto di questo rituale collettivo mi risulta misterico ed affascinante. Innanzitutto la quantità di presenti, che deduco dai parcheggi azzardati nei dintorni del palazzetto, una scena che – facendoci jogging intorno quotidianamente – vi assicuro, non è abituale vedere. Entro, mi viene perquisita la borsa, mi viene ritirato il pericoloso ombrello e mi siedo: ancora tutto in fieri, ancora tutto si prepara, ma l'atmosfera è frizzante, non ci sono altri aggettivi con cui definirla. Sono le otto di Mercoledì sera, mi immagino che molti spettatori intorno a me siano da poco usciti da lavoro, mi immagino che come me siano stanchi, provati, affamati: eppure sono eletrizzati ed è proprio questo ad attirare la mia attenzione, perchè la partita tra la Dolomiti Energia e la Dinamo banco di Sardegna è sicuramente avvicente – lo testimonia il battere frenetico della zona stampa, una sequela di teste chine sui pc che raramente può concedersi il lusso di alzare la testa per godersi il gioco – ma quello che più di tutto fomenta è il concretizzarsi di quell'Energia che l'Aquila Basket porta nel nome, il suo pubblico, la sua tifoseria. Chi segue l'Aquila è un esercito organizzato, sono tamburi, sono cori, sono bandiere, sono coriandoli , sono cheerleader e mascotte, ma soprattutto persone di ogni età: vedo intorno a me bambini e nonni vestire fieri la maglia bianca e nera dei playoff, vedo signore ingioiellate, così come distinti business men, sbracciarsi nei momenti salienti della partita. E' questo senso di universalismo a conquistarmi e a farmi dire, a me che di tifoseria sono da sempre a digiuno, “affascinante”. Il tifoso dell'Aquila è il trentino qualsiasi, è il cittadino, è il lavoratore, è lo studente che in quel momento, in quel palazzetto è allo stesso tempo spettatore, giocatore e soprattutto allenatore. Questo lo dico perchè ho la fortuna, immensa, di avere seduto di fianco a me quello che a posteriori credo essere il capo ultras mancato dell'Aquila, a giudicare dall'intensità con cui fischia a due dita nel mio orecchio sinistro, e allo stesso tempo il coach mancato, considerata la quantità di consigli/minacce/ammonimenti che impartisce ai giocatori in campo, educatamente urlando. Ma non è l'unico, anzi è la tendenza comune di chi sento dire entrando “Andiamo a vedere l'Aquila”, una squadra che a pochi minuti di gioco diventa “Noi”: noi abbiamo fatto fallo, noi abbiamo segnato, noi siamo sotto tono, noi siamo i numeri uno, noi siamo vinciamo, noi perdiamo. E questo è sintomo di una squadra che – è evidente – sa farsi amare, sa farsi sentire. Altro indizio che fa tenerezza ad ogni esterno è sentire i giocatori chiamati con soprannomi e abbreviativi che non azzarderebbe nemmeno un parente stretto, alticcio dopo il pranzo di Natale. Allora succede la magia, allora i respiri si sintonizzano, già dal primo tempo in poi (Anche questa volta mi sono fatta spiegare quanto dura. Dieci minuti l'uno, per quattro volte) e siamo tutti fissi lì, anima e cuore, adepti e novellini, quando palla e cesto si sfiorano, succeda quel che succeda. E a proposito di succeda quel che succeda, stasera ci sarà un'Aquila che lontana da casa di nuovo sfiderà il Sassari e che di nuovo combatterà per la vittoria, ma se c'è una cosa che ho capito perdendomi nella contemplazione dell'ardore che vedo dipinto nei volti di chi, invece, non può staccare lo sguardo dalla partita, è che vada come vada la Dolomiti Energia a Trento ha già vinto tutto, perchè ha vinto nel fervore di chi la segue, nel culto quasi religioso che ha creato intorno a sé. C'è equilibrio tra gli spalti, un mix quasi inspiegabile se non vissuto in prima persona, che si compone di rispetto sportivo per l'avversario e allo stesso tempo di una fusione tale con la causa, con la squadra, che porta il più composto avvocato a urlare le meno edulcorate provocazioni al malcapitato arbitro della serata, che porta l'intero Palatrento alle minacce non verbali di varia natura in caso di fallo non giustificato dal pubblico stesso.

Poi il mio morigerato vicino dice, o meglio sbraita, ciò che io intimamente sto relizzando essere il fulcro della partita in casa: “Fategli sentire il tifo!” Ed è tutto lì, perchè mentre in campo si svolge una partita, sugli spalti se ne sta giocando un 'altra, una molto grande, che polarizza tutto l'entusiasmo verso il bene, anche quando l'Aquila sbaglia – e giù rimproveri, al via gli allarmismi – e soprattutto quando invece a detta comune gioca bene. Si accumula la tensione sul finire, la sconfitta risulta quasi sicura ma i numeri non contano: l'attenzione di chiunque sia nel palazzetto sono fino all'ultimo secondo sugli idoli che compongono il pantheon, i giocatori dell'Aquila.

Quando ormai però suona la fine della partita e il risultato non lascia dubbi, anche allora, è col sorriso che i tifosi del basket di Trento si accomiatano dall'incontro, sommessamente accompagnandosi, mormorando un “Bravi, comunque bravi”. Sul quel “comunque” risulta la bellezza di una partita, che anche se persa, rende palese a chiunque, anche all'ultima ignorante in materia, che le sorti di questa squadra, grazie ad un supporto del genere, sono alte.

In bocca al lupo ad un'Aquila che vola lontano questa sera, ma che è seguita da tanti e da così vicino questa sera.

(Lucia Gambuzzi)

dedicato a s.z.