Attacco a Capitol Hill: la tribù di Trump alla riscossa

Il folle assalto del 6 gennaio alla democrazia USA spiegato sotto la lente del tribalismo

di Giulia Isabella Guerra

I fatti

Il 2021 è stato inaugurato dal folle attacco a Capitol Hill, sede del Governo degli Stati Uniti, e il Campidoglio, sede dei due rami del Congresso nonché simbolo storico della democrazia negli USA e nel mondo, è stato oltraggiato da centinaia di sostenitori del presidente Trump, molti dei quali armati.

Il bilancio complessivo dell’assalto è stato di 4 morti e 52 feriti, ma lo sconcerto di tutto il mondo è dovuto al valore simbolico dell’episodio: un attacco alla più antica democrazia elettiva, le cui radici affondano nella seconda metà del Settecento e i cui frutti hanno contribuito alla fondazione di basi democratiche in Europa e nel resto del globo.

Ripercussioni nel mondo

Paolo Magri, vicepresidente dell'Istituto Italiano per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI), ha evidenziato gli effetti a livello internazionale di questa rivolta, che è stata favorevolmente accolta dai leader autoritari di tutto il mondo.

Di fatto, in futuri negoziati internazionali gli Stati Uniti avranno un'autorità meno forte nell'imporre standard normativi, specialmente riguardo alla promozione della democrazia e al rispetto dei diritti politici. Dunque, almeno per ora, l'autorità del gigante statunitense è stata minata e il nuovo presidente Biden deve fronteggiare sia le conseguenze politiche, economiche e sociali della pandemia di Covid-19 che l’epidemia antidemocratica attiva nel paese.

La lente dell’esperto

Il motivo scatenante della vicenda è formalmente il fatto che i sostenitori di Trump, e lo stesso leader repubblicano, non abbiano riconosciuto la legittimità dei risultati elettorali di novembre, che hanno determinato la vittoria del candidato democratico Biden, con un risicato 51,4 % per Biden contro un 46,9% per Trump.

In realtà, una fitta rete di motivazioni, intrisa di malcontento popolare, si cela dietro la facciata del voto presidenziale di novembre.

Secondo la studiosa Amy Chua, professoressa alla cattedra di legge presso la Yale Law School, negli ultimi anni gli Stati Uniti hanno sviluppato distruttive dinamiche politiche, tipiche dei paesi in via di sviluppo o, più in generale, di regimi politici non occidentali, che tendono a comporsi di elementi autoritari.

Queste dinamiche includono:

  • l’ascesa di movimenti etnonazionalisti, per i quali società e comunità internazionale sono divise su base etnica. Di conseguenza, il governo di un paese dovrebbe rispecchiare la volontà dell’etnia dominante, priorizzandone gli interessi;
  • l’erosione della fiducia nelle istituzioni da parte dei cittadini, viste come i palazzi del potere gestiti da élite politiche ed economiche lontane dai bisogni e dalle aspirazioni del resto della popolazione;
  • la diffusione di un linguaggio demagogico di odio e divisione, ad opera dei leaders di gruppi populisti, che accentuano la divisione fra popolo “autoctono”, élite al potere e minoranze, queste ultime percepite come potenzialmente pericolose per l’ordine sociale.

La professoressa Chua sostiene che queste dinamiche siano prova della rinascita del tribalismo, un fenomeno che caratterizza la storia dell’evoluzione umana ma che oggi avrebbe un effetto destabilizzante nel nostro mondo globalizzato.

Il trabalismo e la tribù di Trump

Il tribalismo è quel fenomeno per cui gli esseri umani provano un forte senso di appartenenza verso la comunità nella quale sono immersi, riconoscono come simili a sé soltanto i membri di quella comunità e rivolgono le proprie azioni a favorire lo sviluppo della comunità stessa, provando opposizione e contrasto con i membri di altre realtà comunitarie.

Chua ritiene che le elezioni presidenziali del 2016, che hanno determinato la vittoria di Trump, hanno favorito la creazione di una vera e propria “Trump tribe”, una tribù guidata da Trump, i cui membri condividono sentimenti nazionalisti e di ostilità verso le minoranze o semplicemente gruppi etnici diversi dal modello del “white man” proveniente dalla piccola e media working-class.

Questa tribù si sarebbe rafforzata dal 2016 ad oggi a causa dei lenti processi di ripresa economica, accrescendo il malcontento della classe media, che ha subito fortemente gli effetti devastanti della crisi finanziaria del 2008-2009, vedendo drasticamente ridotte le possibilità di una scalata sociale.

Secondo Chua, i forti mutamenti nella mobilità sociale dei cittadini avrebbero favorito l’ascesa di questo “tribalismo patologico”, in quanto il sogno americano si sarebbe ormai frantumato.

Non a caso, uno studio dell’economista Ray Chetty rivela che negli ultimi 50 anni, per un bambino americano le chances di accrescere la propria posizione sociale rispetto a quelli dei genitori sono crollate dal 90% al 50%.

Le grandi opportunità offerte dallo sviluppo economico e tecnologico negli Stati Uniti degli ultimi 50 anni hanno reso possibile il processo di integrazione dei molti gruppi etnici che popolano la società statunitense, ma la crisi economica del 2008 ha spazzato via questa alternativa pacifica.

 

Il capo tribù

Trump, pur provenendo dal mondo delle élite, condivide molte caratteristiche fisiche e comportamentali con l’individuo-tipo della working class, come un linguaggio semplicistico e spesso political uncorrect, percepito dall’uomo-massa statunitense come naturale e spontaneo, perciò autentico e veritiero.  Pertanto, il processo di identificazione dei cittadini con questa figura controversa è stato estremamente veloce.

Il leader repubblicano ha raccolto a sé i membri della sua nuova tribù attraverso messaggi come “take our country back” e facendo appello alla “real America”, ossia l’America di quei white-men che si sentono trascurati dalle istituzioni rappresentative e che vivono con rabbia e frustrazione il declino economico e sociale della propria classe di appartenenza.

Trump ha inoltre incanalato nel proprio bacino elettorale quelle correnti estremiste come i white supremacists, tradizionalmente condannate tanto dai democratici quanto dai repubblicani. Queste forze sovversive che giacevano attive ma silenziose nel sottostrato politico del paese hanno visto nella presidenza Trump la possibilità di emergere allo scoperto e trovare una propria rappresentanza nei palazzi del potere di Washington.

Alla riscossa!

Come in ogni tribù, spiega Chua, quando la comunità è messa a rischio da agenti esterni, ecco che i membri si mobilitano per salvaguardarla, persino a costo della vita. È quanto è emerso proprio il 6 gennaio a Capitol Hill, quando la tribù di Trump, pur consapevole di oltrepassare qualsivoglia limite legale, ha attaccato l’edificio percepito come minaccia alla propria comunità.

Gli studiosi di tutto il mondo stanno analizzando gli eventi del giorno dell’epifania, chiedendosi se questi possano ispirare simili attacchi in altri stati.

Per molti (si veda Kotkin, fra gli altri), la democrazia e il sistema liberale sulla quale essa si regge sarebbero in pericolo, chiamati a fronteggiare una lunga serie di minacce all’ordine costituito, fra le quali la riscossa del nazionalismo occupa una delle posizioni più critiche. Per altri (utili gli spunti di Deudney e Ikenberry), di contro, la democrazia ha già dovuto affrontare orde autoritarie e implosioni localizzate in singoli stati, come i colpi di stato che hanno caratterizzato l’America Latina negli anni ’80 e ’90 o prima ancora i bui anni di piombo nel nostro Paese, ma la dea della libertà e della giustizia si è sempre risollevata, facendo leva sui benefici che la pace e la cooperazione assicurano alle nazioni.

Quel che è certo, per ora, è che il nazionalismo sta contagiando l’intero globo, di pari passo con il coronavirus, e che un mondo diviso in tribù è un mondo aperto ad ogni sorta di contrasto e violenza.