di Giacomo Ferri
Il 2020 prosegue la sua infausta e inesorabile corsa: è morto nella notte Ennio Morricone. Sembra che il decesso sia dovuto alle conseguenze di una caduta, che aveva costretto il celebre compositore al ricovero in una clinica romana.
Il rischio, nel ricordare e celebrare Ennio Morricone, è di sfiorare l’agiografia. O di sfociarvi palesemente. Riuscire a mantenere un minimo di equilibrio scrivendo di uno dei più grandi compositori della storia (non solo del cinema) è infatti impresa ardua. Già solo valutando l’aspetto “quantitativo” della sua carriera: decine e decine di premi ricevuti, con la ciliegina (cinematograficamente parlando) dell’Oscar ricevuto nel 2016 per la colonna sonora di The hateful eight di Quentin Tarantino. Il secondo Oscar, in realtà, dopo quello alla carriera che gli era stato consegnato nel 2007.
Al di là dei premi, mette i brividi il calibro dei registi con cui ha lavorato sia in Italia (i più grandi della storia del cinema: Sergio Leone, Marco Bellocchio, Elio Petri, Pier Paolo Pasolini, Dario Argento, Bernardo Bertolucci, i fratelli Taviani, Giuseppe Tornatore, Francesco Rosi, Mario Monicelli), sia all’estero (Terrence Malick, Oliver Stone, Brian De Palma, Pedro Almodovar, John Carpenter, il già ricordato Tarantino).
Mettendo da parte anche i nomi dei registi – i quali, seppur grandi, in certi casi non sono stati all’altezza delle colonne sonore dei loro film – ciò che conta e che ha permesso a Ennio Morricone di guadagnarsi un posto nel cuore e nell’immaginario di tutti è la capacità icastica delle sue composizioni. Cioè, banalmente, la loro orecchiabilità. Se facessimo un gioco, nominando cinque film la cui colonna sonora ci ha colpito, almeno una volta risulterebbe il nome di Morricone. Primi fra tutti, sicuramente, ci sarebbero i capolavori di Sergio Leone, il cui nome si lega indissolubilmente a quello del compositore romano: come dimenticare il fischiettio dei titoli di testa di Per un pugno di dollari? O il riusato e abusato tema del Buono, il brutto e il cattivo? O la bellezza che frantuma l’anima del flauto di Pan in C’era una volta in America?
Una leggenda. E, parafrasando Spinoza, auguri a chi mai suonerà al suo funerale.