Yemen: esplosioni che non fanno rumore

Un conflitto locale che si fa carico di moltissimi interessi di potere, con la noncuranza di tutti

di Massimiliano Beghini

Nel pomeriggio del 17 novembre la Locanda del Gatto Gordo ha ospitato il Club Alpbach Trentino, che ha portato esperti del settore politico e sociale di valore internazionale.

Il Club è una realtà formata da studenti e giovani professionisti, con lo scopo di diffondere la conoscenza del Forum Europeo di Alpbach. L’associazione si incarica di cercare fondi presso aziende private ed enti pubblici per finanziare la partecipazione di giovani alla summer school del Forum, che è incentrata sui temi politici, economici, relazioni internazionali e tecnologia.

Conseguentemente su questi temi, il Club effettua conferenze e incontri divulgativi, un esempio è quello tenuto alla locanda intitolato: La guerra dimenticata. Società e guerra civile in Yemen.

Gli ospiti presenti sono stati di assoluto rilievo, essendo giovani ricercatori specializzati in un conflitto a cui presta attenzione un pubblico di nicchia.

Il conflitto in Yemen, che perdura dal 2015 o probabilmente dal 2014, in quanto il susseguirsi degli avvenimenti non è molto cristallina, si presenta come uno dei peggiori conflitti attuali, con 28 milioni di individui coinvolti e una complessità degli attori schierati in lealtà intricate da ricordare scatole cinesi.

La popolazione si ritrova, per ben 14 milioni di persone, sull’orlo della povertà e carestia, con almeno un milione di afflitti dal colera, portando spesso a gravi crisi umanitarie. La risoluzione del conflitto è difficoltosa, come spiegato dagli ospiti.

Il primo livello del Conflitto è internazionale, con la presenza degli Stati Uniti e delle Nazioni Unite, favorevoli al governo legittimo e fornitori di armi all’Arabia Saudita, oltre al coinvolgimento dell’Iran al fianco dei ribelli Huthi. Questi due paesi rendono il conflitto regionale, portandolo ad un secondo livello. Il terzo livello, il più profondo, è quello nazionale dove, come già citato si presentano schierati, anche se in modo confuso, il governo, i ribelli, e i terroristi di Al Qaeda.

Luca Nevola, esperto della società Yemenita come antropologo ricercatore dell’Università del Sussex, spiega le radici antiche del conflitto. Questo è di origine sociale e storica, non solo per la suddivisione classica e semplicistica della divisione avversa tra sciiti e sunniti.

Il sistema sociale in Yemen è caratterizzato da una divisione sociale per tribù territoriali, che generano un sistema giuridico e di alleanze, influenzato dall’esistenza passata dell’Imamato, e la loro sopravvivenza alla rivoluzione del 1962.

La suddetta rivoluzione ha posto le basi del movimento Huthi.

 Il primo punto per spiegare l’origine del movimento riguarda le caratteristiche delle tribù contadine del nord del paese. Queste non creano alleanze tra piccoli gruppi di parentela, ma sono più territoriali e contrattuali. Questi contratti sono per gestire la violenza in territori dove lo stato non è presente.

Il secondo punto è la divisione religiosa: queste popolazioni sono di una dottrina minoritaria dell’Islam, quella Zaydita, una dottrina sciita ma volto vicina a livello giuridico e di rito a quella sunnita. La particolarità è che il potere, durante l’Imamato era solamente concesso ai discendenti del Profeta. L’Imam esercitava il controllo tramite il diritto islamico e non con il diritto tribale, un fattore che ha portato lo scoppio della rivoluzione. Uscendone sconfitti vengono additati come fonte di tutti i mali e dell’arretratezza del paese. Con questo giudizio si crea una suddivisione etnica nel paese, quando precedentemente era inesistente.

La contro parte sono gli arabi del sud, detentori del potere, dove una retorica governativa di politica etnica discrimina i vecchi detentori del potere.

Nel 1982 nasce il movimento Huthi come partito politico che sarà il promotore di opposizione governativa e della presenza e l’alleanza degli Stati Uniti. Il movimento subisce sei guerre in una decina di anni, con ripetute discriminazioni nei loro confronti. Con la Primavera Araba, il movimento viene sdoganato e cresce di approvazione per la sua politica antigovernativa. Dallo scoppio della repressione si passa all’intervento estero che ha sconvolto la dimensione locale e ha portato il paese in una guerra di procura, portatrice di interessi di potenze regionali.

Andrea Carboni, ricercatore dell’ACLED, progetto per raccogliere dati riguardo la violenza politica in paesi in di sviluppo, cerca di dare una stima delle vittime molto più realistica rispetto a quella delle Nazioni Unite. Egli premette indicando che la cifra ufficiale non è errata, ma parziale. Le diecimila vittime riportate, tengono conto solo dei caduti degli ospedali governativi, mentre i ribelli Huthi non rilasciano dichiarazioni. Inoltre, la cifra è stata rilasciata tra il 2016 e il 2017, mentre il conflitto procede e le vittime aumentano.

Tramite il lavoro del progetto, grazie a una raccolta differenziata e la raccolta delle morti riportate da giornali locali e internazionali, si può verificare che le vittime attualmente sono almeno ottanta mila, con un aumento delle vittime nel 2018, per il peggioramento del conflitto.

Almeno sei o sette mila vittime sono sicuramente civili, ma è una sottostima, tenendo conto dei caduti di obbiettivi chiaramente civili, mentre non tiene conto delle morti che avvengono in concomitanza di altre di militari o paramilitari.

I principali responsabili delle morti è la coalizione saudita, circa con i tre quarti di queste, rei pure di distruzione indiscriminata di qualunque infrastruttura civile, come ponti, scuole e ospedali, usando la proibita tattica del doppio bombardamento in successione: mirata a colpire i soccorsi.

Pure i Huthi si sono macchiati di crimini, come l’assedio di città, il reclutamento di bambini-soldato, estorsioni e rapimenti. L’omicidio dell’opinionista Jamal Khashoggi ha riportata la questione yemenita sui giornali e Carboni cita Stalin: “La morte di una persona è una tragedia, la morte di un milione è una statistica”, per evidenziare la caratteristica degli omicidi extra giudiziali dell’Arabia Saudita.

Conclude Gianmarco Longoni, che indica la difficile via per un cessare il fuoco o un trattato di pace. Il principale attore, l’Arabia Saudita è sotto pressione, per la vicenda del giornalista e non riesce a smobilitare la situazione per l’investimento politico ed economico, e in quanto l’opposizione è vista sotto una luce migliore e ha condizioni più stabili rispetto al controllo del territorio. L’Iran ha una notevole influenza senza un grosso investimento di risorse, il che porta tutto a svantaggio al paese Saudita.

Per tutti gli attori coinvolti è più comodo proseguire con la guerra, senza una probabile risoluzione nel breve periodo, e senza una svolta di una fazione, lasciando il paese in un limbo di guerra continua a discapito delle popolazioni.

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