Rap e poesia all’insegna della cooperazione internazionale: l’esempio di MAIA

L'associazionismo universitario è una categoria che comprende un mondo. Diverse e con vocazioni tra le più disparate, le associazioni sono però accomunate da un fatto: si tratta di giovani che sottraggono parte (a volte molto) del loro tempo allo studio per dedicarsi con passione ad una causa. Spicca in questo panorama l'associazione MAIA –Make An Impact Association, fondata nel 2010 da cinque studenti dell'Università di Trento desiderosi di apportare il loro contributo alla questione israelo-palestinese attraverso gli strumenti della cooperazione internazionale. L'area operativa di MAIA è la comunità di Jenin (Palestina) con la quale, grazie ai numerosi soggiorni in loco, si è sviluppata una collaborazione importante che ha permesso la creazione di diversi progetti legati al tema dell'educazione. I ragazzi di MAIA sono recentemente tornati da un soggiorno di quasi tre settimane per sviluppare il loro ultimo progetto Palestine Poetry Network. Abbiamo deciso di intervistare Elena Calsamiglia, studentessa di giurisprudenza al quarto anno, la quale è parte dell'organizzazione da tre anni. 

Elena, facci una panoramica del progetto, come è nato e come si è sviluppato negli anni

Il Palestine Poetry Network è attualmente il principale progetto di MAIA, nato nell'ottobre del 2012 attraverso il lancio del documentario “Revolution Art Poetry”, con l'intento di catturare l'immagine del popolo palestinese attraverso un profilo peculiare: quello della sua espressione letteraria e della resistenza artistica. In tutte le nostre attività, abbiamo sempre cercato di valorizzare e promuovere l'essenza vitale del popolo palestinese che, seppur costantemente negata e manipolata, esiste, arde e lotta per affermarsi.

L' idea del PPN è di costruire in un sito web una mappa della Palestina storica (Cisgiordania e territori palestinesi del '48) e della Striscia di Gaza attraverso la quale, cliccando su ogni singola città, venga fornito un elenco di tutti i poeti e i rappers della zona, corredato di materiali multimediali, descrizione della poetica e una breve biografia per ciascun artista. Una terza sezione sarà poi dedicata alla catalogazione dei centri culturali (incluse scuole di musica, accademie, teatri). Il sito conterrà anche un blog in cui verranno inseriti articoli di approfondimento sul tema della resistenza culturale e artistica in Palestina in termini più ampi. 

La finalità del progetto è duplice: da un lato, diffondere la cultura palestinese contemporanea in Italia e in ogni dove potenzialmente raggiungibile tramite il web (per questo motivo, il  sito è stato pensato per essere tradotto in 3 lingue: arabo, inglese e italiano); dall'altro, fornire una piattaforma online utile per gli stessi giovani artisti palestinesi, i quali potranno servirsene per entrare in contatto gli uni con gli altri, conoscersi e avviare collaborazioni, superando le barriere fisiche che il Muro, i check points e le difficoltà economiche da anni frappongono tra loro. Questo secondo obiettivo ci sta particolarmente a cuore, in quanto la nostra è un'idea di volontariato non fine a se stesso, contingentato nel tempo ed “esterno”. Bensì capace di produrre strumenti utili di cui la popolazione stessa possa concretamente servirsi in futuro.

Attualmente il sito è ancora work in progress, lo stiamo perfezionando (ci potete dare un'occhiata all'indirizzo www.palestinepoetry.net). I limiti di bilancio ti portano sempre al tavolo dei conti con la realtà. 

Perché proprio il rap? Qual è il rapporto con questa forma d'arte in quei territori?

Questa è una delle domande più frequenti che ci sono state rivolte per bocca palestinese. La scelta iniziale è stata dettata dalla passione artistica personale di alcuni nostri volontari, che, dedicandosi personalmente al rap e alla poesia, erano curiosi di scoprire l'influenza sulle parole del cocktail tutto medio-orientale composto di tradizione e occupazione. Per come la vedo io, il linguaggio, in quanto forma di espressione per eccellenza, è a sua volta l'espressione di un popolo più sensibile ai fenomeni sociali. È intrinsecamente cangiante. Anzi, se non lo fosse, probabilmente sarebbe un segnale mortifero di ibernazione sociale. La poesia è una forma d'arte che definirei quasi “pop” in Palestina (il poeta Mahmoud Darwish è più celebre di De André e Guccini messi assieme laggiù); Il rap è per molti aspetti l'evoluzione contemporanea della poesia tradizionale. Rap significa utilizzare la musica  e il ritmo per giocare con le parole, manipolarle nella forma e nel significato, talvolta per reinventarle, altre volte per smascherarle. A livello più ampio, ci ha incuriositi osservare in che termini e con che risultati una forma d'arte di matrice sostanzialmente occidentale, ma spesso legata alla denuncia politica e sociale, potesse essere recepita nel contesto del miscuglio palestinese di tradizionalismo, youth culture e Occupazione.

 

Come è stato accolto il progetto, quali sono state le reazioni dei locals?

Per la verità, le reazioni che abbiamo ricevuto al riguardo sono state abbastanza variegate. C'era chi ci avvertiva del fatto che il nostro lavoro si sarebbe rivelato difficilissimo, “perché il rap usa un linguaggio volgare e violento, che nessuno qui vuole ascoltare”; altri invece si sono rivelati da subito entusiasti nel poterci presentare gli innumerevoli amici rappers, leaders della scena musicale contemporanea di Ramallah. A parte questa schizofrenia un po' comica, dovuta all'effettiva eterogeneità  sociale che caratterizza la Palestina, direi che la verità sta nel mezzo: il rap si sta pian piano affermando sulla scena artistica, soprattutto grazie a Internet e ai vari siti musicali. Certo, il suo linguaggio spesso è molto forte e senza mezzi termini, e ciò lo distanzia molto dalla sensibilità di parte del pubblico palestinese. 

 

Descrivici la tua giornata tipo

Durante la nostra ultima visita abbiamo cercato di coinvolgere i ragazzi dell'Al-Quds University di Abu Dis (villaggio parte di Gerusalemme est nei confini del '67) nell'implementazione del progetto. Un progetto che si occupa della cultura e dell'arte contemporanea palestinese non poteva essere gestito e portato avanti esclusivamente da Italiani, sarebbe stato pretestuoso, oltre che svilente per i contenuti stessi del sito. Così, mentre alloggiavamo presso il dormitorio dell'università, ogni mattina stavamo con i ragazzi a presentare e sviluppare assieme il PPN, mentre i pomeriggi erano tendenzialmente itineranti, alla ricerca di artisti e centri culturali da inserire nel progetto. 

 

Cosa ti ha più colpito relativamente al progetto, cose che non ti aspettavi e che invece hai trovato?

La frase che più mi è rimasta impressa l'ha pronunciata Sharaf, il ballerino di Dabke (la danza tradizionale palestinese) coordinatore di un centro culturale di Ramallah. Senza mezzi termini Sharaf ha ammesso: “We don't believe in art for art sake.” Secondo Sharaf, l'arte non ha significato di per se stessa, non può avere un valore meramente estetico o di mero intrattenimento. È fondamentale per il popolo palestinese coltivare e valorizzare la propria tradizione culturale e artistica sotto due aspetti: rivendicare la propria vitalità e resistere ai soprusi quotidiani, da un lato; tramandare un'identità nazionale, che esiste e si nutre ogni giorno, alle future generazioni, dall'altro. Per questo al Popular Art Center organizzano non solo corsi pratici di Dabke, ma anche lezioni teoriche, in cui insegnano ai giovani allievi le origini di questa danza antica, tradizione che i palestinesi condividono con altri popoli arabi.

Sono sempre stata convinta che l'arte sia ineluttabilmente influenzata dal contesto politico e sociale in cui si esprime, ma prima di parlare direttamente con gli artisti palestinesi non avevo colto fino in fondo l'importanza che essa può giungere a rivestire per un popolo che vive un conflitto lungo ormai due generazioni, in cui la posta in gioco più alta è la cancellazione dell'identità nazionale, oggetto di continue negazioni. La società palestinese, poi, è divisa al suo interno in innumerevoli sensi: territorialmente, dai check points e dal muro; geograficamente, dalla separazione fisica con la striscia di Gaza; ci sono inoltre moltissimi palestinesi che sono rifugiati all'estero, in Giordania, in Siria, in Europa. E la separazione crea isolamento. É stato sorprendente vedere come le iniziative culturali e artistiche vengano pensate dagli artisti stessi appositamente per costruire dei ponti al fine di andare al di là di queste barriere oggettive. Non sono rare, ad esempio, le collaborazioni con Gaza: ci sono diverse iniziative a carattere artistico (workshops, rappresentazioni teatrali, ecc.) attraverso le quali si cerca di far entrare in contatto i giovani della West Bank con i ragazzi di Gaza, che pur non potendosi spostare materialmente, in questo modo riescono a fare attività assieme. 

Una giovane poetessa palestinese canta: “My Arab identity antagonizes me”. L'arte ha il potere di sconfiggere questo cancro, di nutrire e valorizzare l'identità araba. E i palestinesi già lo sanno. 

 

Ed ora, che farete? 

Intanto il 28, 29, 30 aprile ci sarà un ciclo di conferenze intitolato  "Occupy a State: How to. Profili critici dell'occupazione israeliana e gli effetti sulla nostra libertà di scelta"

presso tre sedi dell'Università di Trento.

Inoltre stiamo organizzando a partire dai primi giorni di aprile riunioni open-door per cercare nuove reclute. STAY TUNED. YALLA!

 

trailer del documentario Revolution Art Poetry qui

Farah Chamma, poetessa palestinese parla di cos'é l'identità

sito MAIA ONLUS

 

(C.A)