Il processo mediatico: la giustizia nell’era del televoto

di Lorenza Giordani

Alla gogna prima che sia stata pronunciata sentenza. È questo che capita spesso a moltissime persone solo indagate, o magari anche imputati, che finiscono nell’occhio del ciclone mediatico prima ancora che un giudice si sia potuto pronunciare sul suo caso.

Sul tema si è discusso lo scorso mercoledì 19 ottobre presso l'Oratorio del Duomo, in una conferenza dal titolo “Processo mediatico: la giustizia all’era del televoto”, organizzata da Elsa, associazione europea degli studenti di giurisprudenza.

A moderare era il professor Alessandro Melchionda, ordinario di Diritto Penale presso l'Università degli Studi di Trento, che si è trovato a mediare tra le tre categorie di avvocati, giornalisti, e magistratura.

Il primo ad intervenire è stato l’avvocato Andrea De Bertolini, presidente dell’ordine degli avvocati di Trento.

Che cos’è un processo? De Bertolini lo definisce una laica liturgia sociale catartica: un rito, che però deve rispondere alle premesse costituzionali; tra queste, oltre alla presunzione di innocenza e all’inviolabilità del diritto alla difesa, troviamo anche la libertà di manifestazione di pensiero, su cui si fonda il diritto di cronaca. Il diritto di cronaca non è solo espressione di tale libertà, ma rappresenta anche un mezzo che permette di presidiare il corretto svolgimento della funzione giurisdizionale, nonché di concorrere alla sua legittimazione.  Purtroppo però con il processo mediatico – quello che spesso vediamo alla televisione su programmi di dubbia serietà –  si violano le forme del giusto processo, per tre ordini di motivi. Innanzitutto di delocalizza il processo, che esce dalle aule di tribunale ed entra negli studi televisivi, dove le vere parti in questione non partecipano. Si utilizzano poi presunzioni conoscitive, basate solo sugli atti delle indagini preliminari: non tutti sanno, infatti, che ciò che il pubblico ministero raccoglie durante le indagini preliminari non sono le prove vere e proprie del processo, ma solo elementi di prova, che dovranno poi essere discusse in dibattimento, nonché eventualmente smontate completamente dalla difesa. Per questo motivo i giornalisti corrono il rischio di riportare notizie che provengono da fonti non dialettiche.

Il professor Melchionda ricorda quindi che il processo penale non mira ad accertare la verità assoluta, bensì una verità relativa, processuale: questo perché in processo non tutti i metodi conoscitivi si equivalgono, ma anzi sono ammissibili solo quelli che rispettano il principio del contraddittorio, l’iniziativa di parte nonché le libertà fondamentali.

Interviene quindi il dott. Fabrizio Franchi, presidente dell’ordine dei giornalisti del Trentino-Alto Adige. Anch’egli ricorda che senza la stampa viene meno un presupposto fondamentale della democrazia, e richiama alla memoria quelli che sono stati i più grandi processi mediatici della storia: si parte dal caso Dreyfus, passando per Tangentopoli, fino ai giorni nostri. Franchi sottolinea che in ogni caso la soluzione a questo problema è rimessa in gran parte all’etica e alla deontologia del giornalista stesso, sul quale ricade l’onere di vagliare criticamente la fonte delle proprie notizie.

La parola passa al dott. Pasquale Profiti, sostituto procuratore della Repubblica presso il tribunale di Trento.

Ripercorrendo le norme del codice di procedura penale sull’obbligo del segreto istruttorio e sul divieto di pubblicazione di atti, il dottor Profiti analizza il ruolo della magistratura in merito alla cosiddetta ‘fuga di notizie’, relativamente alla quale spesso non viene indagata la responsabilità dei magistrati stessi.

Che cosa è cambiato negli ultimi anni in merito a questo tema? Sicuramente l’incidenza massiccia di internet, che permette al popolo dei social network di emettere sentenze a poco tempo dal fatto, afferma l’avv. Nicola Canestrini; ciò che è ipotesi per gli investigatori non può diventare certezza mediatica, per il solo fatto di essere rimbalzata nel web.

Il processo mediatico innerva il populismo penale – prosegue Canestrini – e allontana dal paradigma del giusto processo, facendo leva sull’emotività e su una visione in bianco e nero della realtà, che non lascia che sia il processo nelle aule di giustizia a condurre ad una sentenza.