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di Gabriele Barichello

 

 

Animali notturni
Tom Ford

“Perfectionism is something you born with.” Tom Ford. Matteo Bordone ha scritto per Internazionale una recensione precisa, chirurgica, di questo film. Una volta carpito il bandolo della matassa infatti non è difficile risolvere l’elegante imbroglio, è complesso accettarne le conseguenze. Due piani paralleli che si incrociano solo grazie alla protagonista Susan (Amy Adams) metaxy inconsapevole di tutta la trama. Un mondo composto e composito, il suo, raramente intaccato da quello “reale”: poche sono infatti le finestre che le permettono di liberare il potenziale devastante della polvere, del dolore, dell’orrido nella vicenda percorsa da Tony (Jake Gyllenhaal). “Credimi, il nostro mondo è molto meno doloroso di quello reale”. Il dolore è una variabile talmente poco ricorrente nella dimensione della protagonista che quando vi fa capolino è uno scomodo commensale, ed è condotto a lei con lo strumento della finzione per eccellenza, la letteratura, quale beffa! L’insignificante ferita procurata con un foglio di carta si riflette in un aberrante stupro ed omicidio nel mondo reale; un volatile schiantato contro le imponenti vetrate del castello borghese di vetro (e di fictio), dimora della gallerista, diventa una morte straziante, un disperato rantolare; un telefono che cade ed il rammarico prodotto sono trasfusi in una malattia degenerativa, in una vendetta accecata ed accecante. Quello di Susan è un palcoscenico, una continua coreografia, dialoghi elisabettiani, menzogne spudorate (meglio avere un marito gay che non averlo; meglio passare come avanguardisti che come falliti), un opprimente controllo. Quello di Tony è un rodeo di sangue e sudore, di angoscia, impotenza (water sul patio, vomito, odio) un caos feroce. E poi c’è l’incontro: la mente di Susan, costretta ad immaginare, perché non conosce il contorto mondo della violenza, colloca due corpi infranti sopra un sofà vittoriano, proprio come poggiava i corpi deformi delle majorette nella sua galleria: plastici, compositi, l’immagine è grottesca. Il mondo di Susan, quello di Ford, è intriso di profondissimi neri, angoli ciechi che sfuggono a qualsivoglia controllo, eppure ne costituiscono l’essenza. Il mondo di Tony, l’altro di Ford, è dove il nero invece è essenza ed essere, liberandosi in una dimensione che detronizza ragione e controllo: il mondo reale. Il ritmo non è rapido, è un battere lento e costante, una marcia: Tom Ford ci fa percorrere questa personale discesa agli inferi dove poggiando il piede sul primo gradino è già tardi per voltarsi indietro. È tardi quando le macchine si affiancano, accelerano, accelerando i battiti, il tempo: ci siamo già immersi nel nero della notte. Il dolore fa crollare le tessere del domino, sfonda con fragore il suo contenitore letterario, sfondandolo irrompe fino a noi scalzando pure l’éscamotage cinematografico, un fiume in piena irreversibile. L’apoteosi estetica di Ford viene celebrata in ogni fotogramma, è un film da vedere, basta una sola volta, perché in una steppa cinematografica scontata e prevedibile è irresistibilmente stridente.

 

Lo splendore del nero
Alain Badiou

L’autore di questo pamphlet non ha avuto la stessa popolarità dei suoi connazionali nella nostra penisola, forse perché di tutta la sua produzione poche sono le opere immediatamente potabili e facilmente traducibili. Confutiamo questo primo assunto sostenendo che poche sono le opere facilmente traducibili, ed anzi, se questa facilità si realizza, è un segnale forse che di opera non si tratti. Lo splendore del nero è una rassegna di brevi episodi autobiografici, anche se di cronaca c’è magra sintassi. L’episodio, semplificato e discorso solo in poche righe, viene utilizzato come éscamotage da Badiou per parlarci di altro: narrazioni quotidiane, plausibili, che grazie al fine intelletto dello scrittore francofono diventano chiavi di lettura. Un tema, il nero, ricorrente e ricorsivo nella mente del filosofo, sul quale si interroga e ci fa interrogare. Queste pagine infatti non si pongono affatto il fine di risultare esaustive, anzi, fungono da scuse per porci interrogativi e dilemmi di altra portata: starà al lettore quindi scegliere quanto avanzare nello scuro gorgo. Un capitolo su tutti, il quarto: l’inchiostro. La scrittura è il veicolo del pensiero, perciò dev’essere altrettanto curato, ma senza estetismi: “A questo mondo, tutto proviene da un minuzioso quanto inventivo dosaggio del nero scaraventato sulla temibile invariabilità del bianco. Chi non lo sperimenta, e non lo sperimenta il prima possibile, non imparerà niente.” Per nulla banale questa argomentazione è secca, è una presa di posizione netta, critica, difficilmente rovesciabile: ubi maior, dicevano…  Piccole pillole di nero si susseguono nel corso delle pagine, corroborate da deduzioni ed induzioni lampanti ma mai scontate: l’ovvio, tante volte snaturato dall’indifferenza prodotta è rivelatore, come se ad ogni passo dovessimo fermarci a riflettere sulla direzione intrapresa. Anacronistico, si potrebbe dire, almeno quanto l’immagine del calamaio, ed inserito nella rapidità e velocità dell’odierno diventa odioso rallentatore. Ma se è vero che oggi less is more allora si può anche dire meno e meglio, è una semplice equazione, se non più almeno meglio, o il prodotto non sarà mai sufficiente. Abbiamo perso il gusto del dettaglio, e la cura sembra ormai artificio: Badiou è un rimedio, è un minimalismo psicopompo.

Black in deep red, 2014
Moses Sumney

“Dopo aver demonizzato i gatti neri e i corvi, i diavoli con le nere iniquità e le streghe con i loro neri stracci, la morte nera e l’anima nera, è stato necessario che noialtri, sedicenti Bianchi dell’Europa occidentale, ci inventassimo la storia che l’immensa maggioranza della popolazione africana, solo per il fatto di essere “nera”, costituiva in maniera manifesta una “razza” inferiore, da destinare prima alla schiavitù e poi alla manovalanza per conto degli occupanti coloniali.” Alain Badiou, Lo splendore del nero, 2016. Il 9 agosto 2014 un ufficiale di polizia, Darren Wilson, ferisce mortalmente un diciottenne, Michael Brown jr, a Ferguson. La vicenda desta fortissimo clamore, i manifestanti scendono in piazza usando lo slogan “Hands up, don’t shoot!”, marciando per qualcosa di odioso ed antico. Dopo il rilascio dell’ufficiale di polizia, non sussistendo prove sufficienti per mantenerne lo stato d’arresto, le marce ricominciano; è proprio durante una di queste, nell’autunno del 2014, che tra le grida, le urla e le mani rivolte verso il cielo si nasconde un “camouflaged outsider”. Moses Sumney si definisce mentre tenta di carpire l’animo della protesta “un antropologo che svolge i suoi studi immerso nella sua specie”. È questa la necessaria premessa per l’EP che poi ne seguirà: Black in deep red, 2014, titolato così e celebrazione dell’omonima opera di Mark Rothko del 1957. Tre tracce a comporne una sola, necessarie e complementari una all’altra. Nero e rosso si contrappongono in una tradizione artistica centenaria, e si scontrano anche negli occhi di queste persone: il sangue di Brown è del sangue nero, del sangue rosso di un nero, è del sangue di troppo. Power? ci cala lì dov’era Sumney in quell’autunno, sentiamo le voci attorno e sopra di noi, è un caleidoscopio di età, di colori, uniti dal dolore per la tragedia di Ferguson; colori, rabbia, per quella che pare l’ennesima ingiustizia di un sistema mendace. Una collera unificante, come nelle manifestazioni rivoluzionarie, una mareggiata che progressivamente coprirà le strade della cittadina del Missouri. “Power to the people!” si sente urlare, e ritornare centuplicata nell’eco di quelle migliaia di bocche, uno spettacolo che noi riserviamo alle curve degli stadi (sob!). Una manifestazione legittima del pensiero di centinaia di persone, si stanno caricando tra pari, lì pronti a scattare armati di argomentazioni, di ideali. Durante queste manifestazioni si sfocerà anche nella violenza, è la controindicazione principale del riunire così tanto potenziale rabbioso e determinato. Lo si capisce in Call-to-Arms: il turbinio diventa un caos schizofrenico di generi che fingendosi tra loro producono qualcosa di affascinante e spaventoso. Ed è a questo caos che si contrappone Rank & File, la marcia ordinata, “fredda” e “vecchia” della polizia pronta a caricare, marionette soggiogate dal potere, seguendone la descrizione che ne dà Sumney. È proprio in quest’attimo prima dell’incontro, dello scontro, che si interrompe la sua narrazione: “It’s gon’ come back around one day” è una profezia oppure una promessa?